La terza opera milanese di Mozart in scena al Piermarini con la direzione di Mark Minkowski
di Luca Chierici foto Brescia&Amisano
CURIOSA È LA STORIA DELLA RAPPRESENTAZIONE milanese del Lucio Silla di Mozart, terza opera scritta dal prodigio salisburghese appena diciassettenne per Milano, ospitata il 26 dicembre del 1772 al Regio Ducal Teatro, andato in fiamme quattro anni dopo, e approdato al nuovo Teatro del Piermarini solamente una volta, nel giugno del 1984 con la regìa di Patrice Chéreau. L’allestimento odierno proviene dalle Mozart-Festwochen di Salisburgo di due anni fa, dove il Silla era stato messo in scena secondo la regìa di Marshall Pynkoski, scene e costumi di Antoine Fontaine.
È impressionante constatare come un ragazzo appena uscito dalla fase adolescenziale sia stato in grado di assimilare alla perfezione i dettami dell’opera seria
Direttore anche in questo caso è Mark Minkowski, al suo debutto scaligero, e del cast originale – che alla prima milanese è rimasto orbato del protagonista, Rolando Villazón, di prossimo recupero – sono rimasti Giunia e Cecilio. Si sono ascoltate e viste altre (non molte) produzioni dell’opera negli ultimi trent’ anni, ma le perplessità sono presenti anche questa volta, pur mitigate da una concertazione nervosa e brillante qual è quella di Minkowski, dalla presenza di un cast di tutto rispetto, di una scenografia piacevole e rispettosa dell’impianto originale e diciamo pure di una regìa assai movimentata. Cosa c’è quindi che non va? In caso di dubbio è sempre meglio avere a portata di mano il vecchio e pur sempre valido trattato di Alfred Einstein, che suggerisce la seguente interpretazione: «In complesso il lavoro non è riuscito e manca di unità […] Mozart scrisse musica troppo ricca, troppo bella, troppo caricata, di concezione troppo strumentale.»
Terminata l’Ouverture condotta da Minkowski con piglio garibaldino, gran parte del lavoro mozartiano è sembrato essere costituito ancora una volta da una rapida successione di pur belle e ardite arie da concerto, scritte benissimo s’intende, con un occhio di riguardo ai personaggi di Giunia e Cecilio (che alla prima esecuzione erano affidati alla celebre soprano De Amicis e all’ancor più celebre castrato Rauzzini). È impressionante constatare come un ragazzo appena uscito dalla fase adolescenziale sia stato in grado di assimilare alla perfezione i dettami dell’opera seria, di sviscerare i meccanismi che sono alla base del belcanto, ma in questo caso Mozart sembra ancora troppo attaccato alle convenzioni e il carattere dei personaggi è ancora sfumato, senza una identificazione precisa come accadrà non molti anni più tardi nel caso di Idomeneo in un clima che qui viene anticipato nel terzetto al termine dell’atto secondo. Solamente là dove si ascoltano delle anticipazioni da capogiro (il movimento lento del Concerto per clarinetto in Pupille amate) il cuore inizia a pulsare in sintonia con il grande Mozart.
Le arie del Silla sarebbero talvolta interscambiabili se non fosse che la loro destinazione era stata pensata appositamente per le qualità vocali degli artisti che ora abbiamo citato e se l’attuale produzione confida nella presenza di cantanti molto validi ecco ripetersi il miracolo di una rappresentazione di successo che potrebbe essere riguardata sotto l’aspetto di una immaginaria lezione sul come si costruisce un’opera seria. Marianne Cabassi, splendido Cecilio, è stata la protagonista più applaudita, seguita a breve distanza da Lenneke Ruiten, Giunia improvvidamente ripresa per un acuto non perfetto al termine della sua ultima aria. Ancora molto apprezzati erano il Cinna di Inga Kalna e la vivace Celia di Giulia Semenzato.
Un discorso a parte merita il Silla di Kresimir Spicer che ci è parso più indaffarato ad esprimere l’incontenibile gestualità del suo personaggio, non sappiamo quanto imposto dal regista, che a curarsi di una emissione meno volgare e ineguale. A lui era stato fatto il dono dell’aggiunta di un’aria di spicco tratta dall’omonima opera di Johann Christian Bach (“Se al generoso ardire”) che ha visto emergere anche i tre solisti al corno, fagotto e oboe. La regia di Pinkoski voleva evitare il ripetersi di una sfilata di prime donne, insistere sul carattere sopra le righe del protagonista e allo stesso tempo rispettare una gestualità tipica del teatro barocco, col risultato di creare sovraffollamenti e movimenti scenici che non aiutavano certo a meglio comprendere le singolarità dei diversi personaggi. Belle le scene (e i costumi settecenteschi) di Antoine Fontaine che ricrea la magia dell’impianto ligneo degli antichi teatri italiani, in primis il Farnese di Parma con fondali che ricordano certe stampe di Piranesi e il suggestivo giardino con i pini marittimi e i cipressi. Le coreografie di Jeannette Lajeunesse-Zingg si limitano al rispetto di una convenzione d’epoca ricreata con gusto non esente da qualche sconfinamento temporale verso movenze più tardive.