Opera • Torna al Teatro Comunale dopo sette anni, in un allestimento scenico già noto ma con una lettura musicale formidabile, il melodramma di Verdi: Michele Mariotti dirige in modo rivelatorio e sprona la compagnia di canto a dare il meglio di sé
di Francesco Lora
SETTE RECITE DI NABUCCO al Teatro Comunale di Bologna (19-27 ottobre), a siglare le celebrazioni per i 200 anni dalla nascita di Giuseppe Verdi. Già dal 2006 si conosceva l’allestimento, ora ripreso, con regìa di Yoshi Oida (durante «Va’, pensiero, sull’ali dorate» c’è un pezzo di ragazzo che si fa la doccia), scena unica di Thomas Schenk (una tribuna a gradoni popolata dal coro) e costumi di Antoine Kruk (bande azzurre per gli Ebrei e rosse per gli Assiri; svolazzi bloccati nello spazio per le vesti regali di Nabucco e Abigaille). Ma se la parte visiva può essere costretta in poche righe, quella musicale merita davvero ampio discorso, grazie a una qualità che lascia ammirato lo spettatore.
Michele Mariotti è, innanzitutto e lapidariamente, il direttore col quale l’orchestra e il coro bolognesi lavorano meglio, da oggi risalendo alle occasioni perse di Christian Thielemann (ultimo avvistamento nel 1996) e di Vladimir Jurowski (2003). Di rado – a Bologna nonché in qualsiasi altro teatro italiano: le eccezioni sono quelle di Mehta a Firenze, e di Muti e Pappano a Roma – si respira una pari complicità, stima e reattività tra maestranze e podio. Ciò significa che l’idea di Mariotti a proposito del Nabucco è recepita e realizzata alla perfezione; e siccome l’idea di Mariotti è eccellente, ecco – insieme con quello di Muti a Ravenna, Roma e Salisburgo, e tra infiniti altri ascoltati in ogni dove – uno dei due migliori Nabucco di quest’anno verdiano. È una lettura senza riposo e di eleganza rivelatoria, dove la partitura è studiata dal principio anziché battuta al traino della tradizione pigra: si riscopre la raffinatezza della strumentazione (vi si odono come per la prima volta, brillanti anziché strascicate, le eco classicheggianti e grandoperistiche di Spontini, Rossini e Meyerbeer), si rimettono in discussione tempi e fraseggi (mutevolissimi anche all’interno dello stesso brano, respirando con la melodia e col cantante), si valorizzano gli assoli strumentali (il dialogo dei violoncelli divisi attinge vertici espressivi da capogiro), si esegue in assoluta integralità e nella comprensione delle strutture musicali e teatrali (senza l’orrore di cabalette e strette mutilate, e dando gran peso alla parola, alle pause, al maturare e allo sciogliersi delle tensioni, fosse anche solo nel lasso di quattro battute).
Con un tale direttore, i cantanti sono nel contempo sorretti nelle difficoltà e spronati a superare sé stessi. Nella parte eponima, Vladimir Stoyanov è baritono e personaggio di indole lirica e cantabile, paterna e riflessiva anziché proterva e imperiosa; gli difettano talvolta piglio e volume, ma il suo «Dio di Giuda! L’ara e il tempio» è da ascoltare a occhi chiusi, nell’incanto di un timbro personale, di un morbido legato e di un porgere signorile. Quasi mai ci s’imbatte in uno Zaccaria più ieratico, accorato e granitico di quello di Dmitry Beloselskiy, egualmente saldo nei brani d’espressione e nell’impeto della cabaletta. E un mezzo miracolo è quello di Anna Pirozzi come Abigaille: già notevole a Parma nello scorso inverno e nella stessa parte, ha ora acquisito nuova flessibilità nelle pagine liriche (ragguardevole la coloratura e adamantini i pianissimi), accento incisivo nei passi drammatici (qualche parola si perde, ma giammai il graffio espressivo) e spavalderia nelle puntature al registro sopracuto (risonante all’inaudito quella scaraventata alla fine dell’atto I). All’Ismaele di Sergio Escobar, non ricercato ma generoso, corrisponde la Fenena di Veronica Simeoni, al contrario forbita sia di timbro sia di fraseggio. Dopo la consueta tiepida accoglienza delle “prime” bolognesi, il riscaldarsi del pubblico durante le repliche è imperativo.
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