Virtuosi • I due grandi interpreti si sono esibiti a Milano (unica data italiana). Concerto di grande qualità e successo. In programma opere di Beethoven e Weinberg
di Luca Chierici
SERATE COME QUELLA DI VENERDÌ SCORSO al Conservatorio capitano forse una volta ogni dieci anni, ed è meglio così perché ci fanno meditare su cosa sia la qualità, la bellezza, l’eccezione di un evento musicale straordinario. Tutto ci si poteva aspettare da un recital di Gidon Kremer e di Martha Argerich, che era stato orgogliosamente messo in cartellone dalle Serate Musicali di Hans Fazzari, ma non che i due vivessero un particolare stato di grazia, sottolineato anche da un’occasione rara di collaborazione artistica: Kremer esibiva una sicurezza assoluta, una intonazione perfetta e la Argerich un dominio dello strumento quale non è possibile oggi né eguagliare né tantomeno superare. Entrambi erano poi completamente calati nella musica e lo si è capito immediatamente quando è iniziata la Sonata op.53 di Weinberg, sconosciuta ai più. Vi sono molti artisti che riescono a rendere irriconoscibili musiche anche molto note: loro hanno reso quasi familiare un discorso musicale ignoto, anche se visibilmente imbevuto di un linguaggio che oscillava tra Medtner e Šostakovič. È lodevole e commovente l’opera divulgativa portata avanti da Kremer nei confronti di un musicista sfortunato e così provato dagli accadimenti della vita come Mieczyslaw Weinberg, e abbiamo apprezzato in concerto sia la Sonata per violino e pianoforte che quella per violino solo, difficilissima, presentata da Kremer all’inizio della seconda parte del programma. Musica convincente, che non ha la genialità della sonata di Bartók perché si rifà a stilemi classici molto riconoscibili ed è stata scritta in un periodo in cui la storia della musica prendeva tutt’altre strade, ma che mantiene un suo pregio e vale la pena di essere proposta al pubblico, come del resto viene fatto già da qualche anno in area austro-tedesca nel caso di opere di Weinberg scritte per il teatro, in forma di sinfonia, concerto e via dicendo.
Se in Weinberg si ammirava anche l’estrema facilità con la quale i due artisti leggevano testi poco o punto conosciuti, va da sé che il nucleo beethoveniano della serata ha alimentato a dismisura l’entusiasmo del pubblico. Due sonate in sol maggiore e come primo bis il finale della “Kreutzer” hanno catalizzato l’interesse dei numerosissimi spettatori in religioso silenzio (chissà come mai in questi casi i colpi di tosse spariscono miracolosamente…) e hanno alla fine scatenato applausi interminabili e grida di entusiasmo. Anche chi non era in grado di rendersi conto di tutte le infinite sfaccettature di suono, di micro-fraseggio, che i due hanno mostrato sul campo con una naturalezza che ha del miracoloso, poteva capire l’eccezionalità del momento. L’ascoltatore più esperto si trovava di fronte a un saggio di cosa significhi veramente suonare i due strumenti (e suonarli in duo), interpretare ogni dettaglio nascosto dello spartito, cogliere esattamente il momento creativo beethoveniano collocandolo nel suo preciso contesto storico. Non pensiamo si possa eseguire meglio una sonata così difficile come l’opera 96, e senza nulla togliere alla bravura di Kremer si è capito perfettamente quali livelli di eccellenza avrebbe potuto raggiungere la Argerich se avesse mai affrontato il pianismo del Beethoven estremo. La speranza è l’ultima a morire, e chissà che un giorno Martha non possa ritornare sui suoi passi dopo un silenzio trentennale e presentarsi di nuovo, magari in questa stessa sala, da sola, di fronte a un pubblico che la ama in maniera così intensa.
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