di Santi Calabrò
A Messina la vita concertistica è stata molto intensa anche durante il periodo in cui il Teatro cittadino non svolgeva attività musicale, grazie alle stagioni organizzate dalle associazioni cittadine.
Lo attestano anche i tre concerti di Maurizio Pollini dopo la sua affermazione al Concorso Chopin (1960) e sino al 1972, che arricchiscono i decenni in cui artisti del calibro di Sviatoslav Richter, Walter Gieseking (qualche decennio prima), Nikita Magalov, Paul Badura-Skoda, Radu Lupu, Uto Ughi (che ha suonato a Messina anche in questa stagione), Salvatore Accardo, Elisabeth Schwarzkopf, Paul Tortelier, Severino Gazzelloni, Nicanor Zabaleta, Peter Maag, Georges Prêtre, Christopher Hogwood, Daniele Gatti e tanti altri protagonisti della musica suonavano, cantavano o dirigevano in riva allo Stretto. Tuttavia dopo il 1972 Pollini non é più tornato a Messina, e anche altri nomi di primissimo piano in anni più recenti latitano dai cartelloni, perché i cachet aumentano (e le risorse diminuiscono). Si comprende così l’aria frizzante di evento culturale e mondano che si è respirata al Teatro Vittorio Emanuele dove Matteo Pappalardo, attuale Direttore artistico, è riuscito nell’ “impresa” che per vari motivi non era andata in porto per cinquant’anni: riportare Pollini a Messina.
Il programma austero, con le Sonate op. 101 e op. 106 di Beethoven, non ha impedito che la platea fosse piena, e il pianista ha risposto alle acclamazioni regalando alla fine la Bagatella op. 126 n. 3 come bis (molto gradito). Pollini ascoltato dal vivo mantiene, a dispetto dell’età, delle caratteristiche che illustrano la sua fama: a cominciare dal suono che si impone con una cantabilità tipicamente piena e rotonda, una grana peculiare cui concorrono attacco del tasto, timbratura e pedale. Nello stesso tempo con cui si presta al canto la timbrica polliniana esprime tensione, vibra di interiorità in tumulto anche quando si dispiega in letture lucidissime; come piena di tensione è sempre l’interpretazione di Pollini, mai ripetitiva e negli ultimi tempi investita spesso da una furia enunciativa fatta di tempi serrati e di aumentato peso gestuale delle intenzioni musicali, insieme semplificate e amplificate.
«Anche applicando il metro della ricerca o della scoperta di una diversa organicità, più dispiegata a larga campata che nutrita di strutturalità micrologica, quanto ascoltato a Messina non regge il confronto con altre prove recenti del pianista»
Il confronto tra l’incisione delle ultime tre Sonate di Beethoven di diversi decenni fa e quella recente (tratta da un’esecuzione live) rivela il cammino di un interprete inquieto, che sa anche prendere dei rischi pur di trasmettere il fuoco della domanda di nuovi sensi a opere su cui aveva già espresso letture celebrate in modo quasi unanime. Riempire di slancio e persino di un suono carnale anche i momenti in cui il testo di Beethoven entra in un metafisico dialogo con il silenzio (pensiamo all’Arietta dell’op. 111 o ai momenti più dolenti dell’op. 110) può sembrare un azzardo, può suscitare disaccordo e comprensibili obiezioni, ma nel caso di quel concerto e di quel disco relativamente recente (CD Deutsche Grammophon con le Sonate op. 109, op. 110 e op. 111), è difficile negare un esito coerente e interessante, oltre alla trasmissione del carisma dell’interprete.
Questo Beethoven a senso unico, in qualche modo oltreumano e eroico anche nella sua ultima fase, sembra tuttavia assai meno plausibile nell’op. 101 e nell’op. 106. Dal concerto di Messina non si può trarre un giudizio definitivo sull’evoluzione interpretativa di Pollini in queste Sonate, perché i momenti di imbarazzo strumentale (nel Finale dell’op. 101, nel I movimento, nello Scherzo e nella Fuga dell’op. 106) erano tali da imporre fallosità e incertezze al disegno interpretativo, quale esso fosse. Propriamente, non è questione di annotare le imperfezioni esecutive: il punto è che quando l’eroismo dell’esecutore o della musica arrivano a coincidere in pieno con il cimento mal riuscito di riuscire a suonare le note in maniera corretta, si finisce per smarrire il senso di una composizione. I due movimenti iniziali dell’op. 106, in particolare, sembravano una corsa verso l’Adagio. L’appiattimento della dinamica non appare più una scelta, ma una occorrenza contingente; la velocità diventa mero aggiramento di impervietà non dominate. L’esito, in questi casi, è una perdita di articolazione della forma e di connessione logica. E qualsiasi pagina di Beethoven, dipanata in gesti autonomi e irrelati, smarrisce quell’organicità che – proprio a partire da Beethoven – è diventata uno dei criteri per giudicare la grande musica. Anche applicando il metro della ricerca o della scoperta di una diversa organicità, più dispiegata a larga campata che nutrita di strutturalità micrologica, quanto ascoltato a Messina non regge il confronto con altre prove recenti del pianista. Persino dove Pollini non sbaglia (nei movimenti lenti) e offre i momenti migliori del concerto, non si cancella l’impressione che questa lettura allacci le due Sonate, spigolose emergenze del repertorio beethoveniano, a una dimensione di nichilismo, decisamente forzata in rapporto agli assunti estetici e ideologici di Beethoven. Che poi anche in una serata così il pianista affermi la sua presa su un pubblico predisposto a incontrare il mito, la dice lunga sulle ragioni di una grande carriera.