Composta fra il 1926 e il 1927, l’opera-oratorio in due atti rappresenta uno dei vertici della produzione del compositore russo. In scena a Torino, Modena (dove l’abbiamo ascoltata al Teatro Comunale Luciano Pavarotti) e Ferrara, con Osn Rai diretta da Juraj Valčuha. Edipo è interpretato da Brenden Gunnell. In scena l’attore e regista italiano in un eloquio piano e misurato
di Ruben Vernazza
Siano lodate le collaborazioni! In tempi in cui in Italia la produzione di arte – e in particolare di musica classica – si trova ad affrontare quotidianamente gli ostacoli imposti dalla sfavorevole congiuntura politica, sociale ed economica, la condivisione di progetti fra istituzioni differenti rappresenta una mezzo tanto ovvio quanto virtuoso per ottimizzare i costi, attirare pubblico e far circolare cultura. Se poi il risultato artistico è eccellente, i vantaggi del gioco di squadra sono lampanti.
Ed è proprio questo il caso dell’Œdipus Rex in forma di concerto qui recensito, approdato al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena il 10 aprile, pochi giorni dopo l’esordio all’Auditorium RAI di Torino e prima di un’ultima replica al Teatro Comunale di Ferrara. Il pubblico modenese ha potuto così godere dell’esibizione di una compagine artistica di altissimo livello, della quale facevano parte l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI condotta dal suo direttore principale, lo slovacco Juraj Valčuha, il Czech Philharmonic Choir di Brno preparato da Petr Fiala, un ottimo cast di voci solistiche e, dulcis in fundo, Toni Servillo, stella del firmamento teatrale e cinematografico italiano contemporaneo.
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Il ruolo di Edipo è incarnato da Brenden Gunnell, che sfoggia una voce squillante, agile nei numerosi momenti virtuosistici e capace di restituire con nobile fibra drammatica la tragica presa di coscienza della condizione di parricida e figlio incestuoso del personaggio
Composta fra il 1926 e il 1927, l’opera-oratorio in due atti Œdipus Rex rappresenta uno dei vertici della produzione di Stravinskij. Dopo aver composto partiture che segnarono momenti di bruciante sperimentazione nell’àmbito del teatro musicale europeo di inizio Novecento (si pensi a Le sacre du printemps o all’Histoire du soldat), a partire dagli anni Venti l’autore russo si volse progressivamente verso l’estetica neoclassica. Caratterizzata dal recupero fedele, e al contempo straniante, di strutture formali della tradizione operistica sette-ottocentesca (arie, duetti, cori) e dall’utilizzo di un linguaggio solidamente tonale ma permeato dalle più recenti conquiste armoniche e ritmiche, Œdipus Rex si colloca esattamente in questa temperie stilistica. Neoclassica è anche la concezione teatrale che Stravinsky perseguì in collaborazione con il librettista Jean Cocteau: quella di Œdipus Rex non è una drammaturgia che mira a dare consistenza musicale e scenica agli sconvolgimenti che il dramma provoca sulla sfera intima dei personaggi (e a fornire così allo spettatore la possibilità di un’immedesimazione empatica), bensì una drammaturgia mitica e monumentale, che per l’utilizzo della lingua latina in tutte le parti cantate appare «pietrificata» (secondo una definizione di Stravinsky stesso), e che si focalizza anzitutto sull’azione del fato, entità astratta che governa in modo ineluttabile le vicende umane.
A conti fatti, l’idea estetica che informa Œdipus Rex suggerisce un approccio esecutivo che, per larga parte dell’opera, deve farsi asciutto e controllato, quasi neutro, ma che al contempo necessita di folgoranti impennate espressive nei distillati momenti di urgenza drammatica: ed è appunto questa la cifra stilistica scelta da Valčuha. La sua gestualità essenziale e risoluta guida con autorevolezza una compagine orchestrale di eccellente livello tecnico: il suono appare sempre netto, le escursioni dinamiche sono preparate con cura, ma è soprattutto la quadratura ritmica a risultare encomiabile, tanto che l’ossessionante reiterazione delle pulsazioni ostinate – elemento caratterizzante della partitura – giunge davvero a tradurre in suono l’idea dell’inesorabilità del fato. Altrettanto efficace risulta il coro, un blocco marmoreo per omogeneità e compattezza, che nei momenti topici (come il Gloria a Giocasta fra il primo e il secondo atto) spande una potenza e una brillantezza di suono eclatanti.
Le parti solistiche, da par loro, si conformano con dedizione all’idea interpretativa fissata dal direttore. Il ruolo di Edipo è incarnato da Brenden Gunnell, che sfoggia una voce squillante, agile nei numerosi momenti virtuosistici e capace di restituire con nobile fibra drammatica la tragica presa di coscienza della condizione di parricida e figlio incestuoso del personaggio («Natus sum quo nefastum est») e l’urgente inquietudine del duetto «Pavesco, maxime pavesco» con la Giocasta di Sonia Ganassi. Quest’ultima, sostenuta da una tecnica sopraffina e da una voce che, a scapito di un po’ di brillantezza, ha guadagnato in morbidezza e pastosità, si cala nel ruolo della madre e moglie di Edipo con grande partecipazione emotiva, senza comunque sconfinare in terreni estranei al contesto espressivo generale. Il Tiresia di Alfred Muff sfoggia timbro profondo e copiosità di volume, ma la precisione dell’emissione viene talvolta a mancare quando la linea melodica si allontana dal registro centrale. Marko Mimica, chiamato a interpretare il duplice ruolo di Creonte e del Messaggero, risulta superlativo: la sua voce potente, grave ed omogenea, rende alla perfezione il carattere ieratico e vaticinante dei due personaggi. Ottimo anche Matteo Mezzaro nella parte del Pastore. Infine, nelle panni del Narratore, Toni Servillo opta per un eloquio piano e misurato, che contribuisce a collocare la vicenda in una dimensione mitica, atemporale.
Numerosissimo, il pubblico ha dispensato applausi entusiastici al termine di uno spettacolo che aveva avuto come preludio l’esecuzione di un’altra pagina del Novecento neoclassico, la Sinfonia n. 1 in re maggiore (Classica) di Sergej Prokofe’ev, della quale la brillante lettura di Valčuha aveva disvelato in modo magistrale la fresca gioiosità di ispirazione haydniana.
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