L’ultimo capolavoro di Wagner inaugura la stagione d’opera del Teatro Comunale. Regìa, scene e costumi, firmati da Castellucci, annichiliscono il carattere letterale del testo. Personale e d’interesse, tra tradizione italiana e cauta esposizione di orchestra e coro, la direzione di Roberto Abbado
di Francesco Lora
I COMPOSITORI POSSONO SCEGLIERSI LE MOGLI ma non le vedove. Quanto a Richard Wagner, la storia è quella nota: l’iperzelante Cosima, che gli sopravvisse di quasi mezzo secolo, blindò l’esecuzione del Parsifal entro le sacre mura di Bayreuth. Finché le fu possibile: passati cent’anni dalla nascita del defunto marito, il 1o gennaio 1914 la partitura fu svincolata per legge, e in mezzo mondo si corse ad allestire l’inaccessibile opera. Allora, in prima fila c’era il Teatro Comunale di Bologna, santa sede wagneriana in Italia: il 14 gennaio 2014 (con successive cinque recite fino al giorno 25) il teatro felsineo ha fatto memoria di quell’evento e ha rinnovato la professione di fede con un nuovo Parsifal. O seminuovo, per la verità: l’allestimento con regìa, scene e costumi di Romeo Castellucci è infatti stato varato tre anni fa al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles. E, a dispetto del battage, è uno spettacolo piccoletto. Timoroso di non essere capito dove, nei fatti, v’è poco di logico da capire, il regista fornisce istruzioni per l’uso nel programma di sala (che da p. 83 a p. 95 è una vera e propria agiografia castellucciana, e che a p. 196 fornisce finanche il curriculum professionale dell’assistente alle luci: non una riga, ovviamente, sui cantanti). Castellucci esordisce: «Ho cercato di dimenticare tutto quello che si sapeva». E davvero lo spettatore neofita o esperto, uscendo dal teatro, nulla saprà di più sull’ultimo capolavoro di Wagner. Avrà invece visto l’annichilimento di ogni carattere letterale del testo e di ogni simbologia originale, dal verso alla musica alla didascalia, senza che gli sia dato un contraccambio intelligibile, in sé coerente e critico verso ciò che va ad annichilire.
Si assiste a una serie di visioni disparate, numerose all’incirca quanto le dita di una mano e statiche ciascuna per le molte decine di minuti di ciascun “momento” wagneriano. Il primo quadro dell’atto I, va detto, con quel bosco realisticamente ricreato sul palcoscenico, è stupendo virtuosismo sceno-illuminotecnico e una tra le immagini più suggestive viste su un palcoscenico lirico negli ultimi anni; ma insieme con l’atto II ambientato in un bianco nulla, o con l’atto III, dove in cento marciano al proscenio per interi quarti d’ora, su un tapis roulant, parafrasando Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, anche quel bosco è mero colpo d’occhio, ovvero astensione dall’azione anche solo psicologica. Non manca invece l’esibizione di piazza, per distrarre piacevolmente il pubblico in quell’immobilità visiva che è ancor più immobile della musica di Wagner: v’è un pitone vivo albino, insofferente di doversene stare attorcigliato sulla Kundry tentatrice, e v’è un cane pastore tedesco, che si guarda intorno perplesso e sbadiglia assai. Se i compositori non possono scegliersi le vedove, figurarsi se possono scegliersi i registi.
Qualche buona nuova v’è invece sul fronte dell’ascolto. Il direttore Roberto Abbado è al suo primo Parsifal e forse addirittura al suo primo Wagner integrale: cosa da far tremare i polsi, soprattutto di fronte a un’orchestra e a un coro italiani, né formati né abituati a questo repertorio e ai suoi presupposti retorici e tecnici. Abbado ha però dalla sua umiltà e buonsenso: non ha ancora scandagliato gli infiniti umori della partitura, ma ne sgrana con rara esattezza le figurazioni melodiche; si inserisce nell’antica tradizione, più italiana che tedesca, del Parsifal staccato a tempo il più lento possibile, e ama prolungare ad libitum le pause; riesce nondimeno a tenere a galla il fraseggio di orchestra e coro, cui chiede di suonare e cantare perlopiù piano piano piano, da una parte alleviando il lavoro dei cantanti, dall’altra consegnando una lettura onirica, soffusa, pulviscolosa, quasi impressionistica, soporifera forse per qualcuno e per molti, e di certo non brillante né trascinante, ma personale, inedita e atta a procurare la miglior figura possibile all’Orchestra e al Coro – non specialisti, lo si è detto – del Teatro Comunale.
Peccato che la regìa tradisca in più d’un caso le strutture musicali e penalizzi dunque il lavoro dei musicisti: per esempio quando, nell’atto I, la voce fuori campo di Titurel dovrebbe giungere come da un lontano oltretomba di palcoscenico, e risuona invece da un palco della sala stessa, più vicina d’ogni altro suono; o come quando, nell’atto II, i corpi e le voci delle Fanciulle-Fiore, anziché annodarsi e amalgamarsi sensualmente sulla scena, sono relegati nei palchi di proscenio, gli uni invisibili e le altre stridule (non per limite tecnico ma per la collocazione infelice); o come quando, nell’atto III, i due cortei di cavalieri che dialogano in botta e risposta sono fusi in un’unica massa, che domanda a sé stessa, a sé stessa risponde e manda a farsi benedire la scrittura antifonale a doppio coro.
Tra i cantanti, il migliore in campo è Lucio Gallo come Klingsor, raro caso di italiano a pieno agio nel repertorio wagneriano: a dispetto dell’usura vocale riscontrata negli ultimi anni, suo è il canto il più timbrato e risonante, e il più espressivamente variegato e sollecito. Intorno a lui, buona medietà e qualche delusione. Andrew Richards, del quale si conosce la maschia fragranza d’accento in Verdi, Bizet e Puccini, pare invece stanco e demotivato nella parte eponima. Lo stesso avviene per Detlef Roth: il suo Amfortas risulta qui ancor più timido di quello ascoltato e visto negli ultimi anni al Festival di Bayreuth (con altra regìa; tutt’altra). Non basta la forza di volontà ad Anna Larsson, che è una wagneriana di razza, ma in personaggi come Erda, contraltile a pieno titolo, e non come Kundry, sopranile nonostante alcuni foschi affondi; ella mostra così una calda rotondità nel registro centro-grave, che dovrebbe al contrario suonare torvo, mentre annaspa nell’ascesa all’acuto, come capiterebbe a qualsiasi Maddalena del Rigoletto la quale si sia messa in testa di passare all’Elisabetta del Don Carlo. Gábor Bretz, infine, ha voce di basso robusta e colorita, e piglio giovanile e gagliardo: tutti pregi; ma la parte dell’anziano e casto cavaliere Gurnemanz, pacato depositario delle storie del Gral e del suo tempio, abbisognerebbe di altro velluto e altra ieraticità.
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La regia colpisce al primo atto e via via sempre meno. Nulla di quello che accade in scena può però far intuire l’azione. Sarà costata parecchio, magari si poteva investire di più sul cast. In generale queste regie così sperimentali e capricciose, per opere così poco familiariqui in Italia, sarebbe meglio evitarle dato che la maggioranza del pubblico vede l’opera per la prima (e forse ultima) volta.