Dopo una “prima” problematica, il capolavoro di Britten diretto da Valčuha conquista di recita in recita il Teatro Comunale
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
Per il Peter Grimes di Benjamin Britten, capolavoro operistico classe 1945, è finalmente arrivata la prima volta al Teatro Comunale di Bologna. Cinque recite dal 18 al 24 maggio, senza pompa celebrativa veruna. L’allestimento scenico, non nuovo, è ripresa di quello coprodotto nel 2005 tra i teatri di tradizione di Ferrara, Modena e Reggio nell’Emilia: dodici anni fa significò una medaglia all’intraprendenza artistica della cordata emiliana, ma rispolverato per la fondazione lirica del capoluogo soddisfa mere esigenze di funzionalità. Regìa di Cesare Lievi – quindi – con scene di Csaba Antal, costumi di Marina Luxardo e luci di Luigi Saccomandi.
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Innocua è la trasposizione temporale dal 1830, circa, alla seconda metà del Novecento: il villaggio di pescatori sulla costa inglese non muta di un filo il suo gretto contesto sociale. E l’idea registica asseconda didascalicamente il testo, attenta ai dettagli gestuali e alla restituzione dei ruoli paesani, ma sorda ai sottotesti – in testa quello omoerotico – e facendo temere l’equivoco: per esempio quando Lievi comunica che il protagonista «è un individuo che non riesce ad integrarsi per diventare elemento nella collettività», così da sperimentare «la solitudine e la sua diversità come colpe», mentre è con ogni evidenza la comunità ad avergli precluso a monte l’integrazione.
Sarebbe stato un guaio consegnare la recensione all’indomani della “prima”: si è trattato infatti di una di quelle singolari recite stanche, senza complicità tra scena e pubblico, aggravata da qualche sostituzione d’emergenza in orchestra e da frequenti distrazioni tra le maestranze. Al calare del sipario sull’ultima rappresentazione, invece, l’entusiasmo di applausi ritmati ha festeggiato una lettura musicale giunta di sera in sera al suo massimo affinamento. Superiore a ogni aspettativa la prova di orchestra e coro, sollecitissimi alle inesorabili pretese evocative e tecniche di Juraj Valčuha. Un direttore, questi, che intimidisce per capillare conoscenza della partitura: la illustra con virtuosistiche virate ritmiche, timbri trasfigurati in tagli di luce o sabbiosamente materializzati, quadrata imparzialità, tagliente cinismo e qualche compassione; quest’ultima riconoscibile nell’ultimo interludio strumentale, sospinto con passo lento e dolente, come nemmeno l’autore l’aveva immaginato.
Strenuo è l’impegno attoriale di Ian Storey nella parte protagonistica, con quanto a lui rimane di un canto già facile, corposo e svettante, tuttora prodigo di accensioni autorevoli, nondimeno monco della flessibilità di modulazione che soprattutto i quadri terminali di ciascun atto sottintenderebbero. Come Ellen Orford si scopre il soprano Charlotte-Anne Shipley, genuina nel porgere, radiosa nell’emissione, perfetta nella prosodia. Una black voice traboccante di armonici e un carattere di amichevole compassione convivono nel Balstrode di Mark S. Doss. Dominata dalla Auntie di Gabriella Sborgi – una presenza costante e indicativa quando in Italia si dia un Britten di qualità – si svolge infine la lunga teoria dei caratteristi: ciascuno sbozzato a dovere, dalle Nipoti di Chiara Notarnicola e Sandra Pastrana, al Bob Boles di Paolo Antognetti, allo Swallow di John Molloy, alla Mrs. Sedley di Kamelia Kader, al Rev. Horace Adams di Saverio Bambi, al Ned Keene di Maurizio Leoni, allo Hobson di Luca Gallo.
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