di Luca Chierici foto © Gregor Hohenberg
Il trionfo che il pubblico della Scala ha tributato l’altra sera a Jonas Kaufmann (e al suo splendido accompagnatore, Helmut Deutsch) era più che prevedibile, vista l’enorme popolarità di questo tenore che ha avuto il coraggio di sovvertire non poco la tradizione affrontando tra le altre cose il repertorio operistico – anche quello italiano – attraverso una impostazione vocale e una attitudine interpretativa che gli derivano in gran parte dal terreno dei Lieder austro-tedeschi. Kaufmann giocava in casa perché la maggior parte del programma da lui offerto gravitava proprio su quel terreno, dove oggi non ha rivali anche perché nel suo caso si è verificato spesso il processo inverso: la contaminazione dello specifico liederistico d’oltralpe con la cantabilità e l’approccio spontaneo tipici della lunghissima tradizione di canto italiana.
Kaufmann, che oggi ha mostrato solamente un certa tendenza a sconfinare troppo in una sorta di falsetto talvolta appena udibile, ha incantato gli spettatori attraverso quattro blocchi di repertorio attinti dall’inesauribile calderone liederistico, inaugurando il programma con l’ancora relativamente poco conosciuto lascito lisztiano per transitare poi dal Mahler dei Rückert-Lieder e dagli Heine-Lieder di Hugo Wolf per giungere ai Quattro ultimi Lieder di Strauss. Una lezione di stile e di canto in tutti i casi, che ci ha trovati però poco convinti proprio nel caso dell’ultimo capolavoro del compositore di Garmisch, che come tutti sanno ebbe la sua prima esecuzione nel maggio del 1950 a Londra – nella originaria forma orchestrale – complici nientemeno che Kirsten Flagstad e Wilhelm Furtwängler. Siamo troppo abituati ad ascoltare questi sublimi esempi attraverso la voce di soprano che hanno fatto la storia per avere potuto apprezzare la performance di un tenore che si è trovato spesso in difficoltà nel gestire gli intervalli proibitivi e soprattutto la tessitura acuta di un testo che è di proverbiale difficoltà. E in qualche caso non ha funzionato del tutto la simbiosi con Deutsch, giacché il tempo e il fraseggio scelti nel caso di “September” diluivano troppo un discorso che si può apprezzare solamente con il sostegno del violino solo in orchestra. Di Kaufmann però si ammira anche l’atteggiamento di sfida costruttiva, la coscienza della percorribilità di nuove vie che possono mettere a repentaglio le certezze acquisite, e in questo gli siamo grati per averci fatto riflettere nuovamente su un repertorio che credevamo non tenesse in serbo altri segreti.
Non sempre riesce a Kaufmann lo stesso tipo di operazione qualora venga declinata su un terreno a noi molto più noto, visceralmente noto. E se nella lunga sequenza di bis offerti dall’affascinante tenore i miracoli si ripetevano attraverso il ricorso a tre altri Lieder straussiani e a un dolcissimo commiato lisztiano, se l’ammaliamento proseguiva con “il fiore” della Carmen e “le stelle” di Tosca (che lucevano ancora instillando commozione nell’uditorio), l’esperimento di una “Celeste Aida”, risolta con discutibili tentativi di smorzatura della voce che sconfinavano nel falsetto e che nulla avevano a che fare con la migliore tradizione nostrana, ci lasciava per una volta poco entusiasti. E in questo senso il primato pavarottiano, con il suo diminuendo sfoggiato nelle serate di maggiore successo, rimaneva ben saldo nel nostro ricordo.
Purtroppo il bel tenore è assai sopravalutato anche qui da noi. Ma a leggere bene il suo commento non è che la recita l’abbia soddisfatta rispetto al titolo della recensione. Il Kaufmann ebbe tempo addietro seri problemi di voce tanto che ipotizzò di non riprendersi più. Il timbro tenorile è sparito sostituito da quello baritonale. Non regge più le mezze voci naturali ma si appoggia ad un falsetto a mio modo di vedere insopportabile. Sono sincero nel dire che rinuncio alle recite quando egli è presente. Mi è bastato sentirlo in un Trovatore dato alla Bayerische Staatsoper di Monaco qualche mese fa; davvero penoso se rapportato a certi Manrico di qualche tempo addietro. Sono sicuro che se lei avesse scritto questa recensione a titolo puramente personale, sarebbe arrivato alle mie stesse conclusioni ma oggi non si può se non a costo di inimicarsi la platea dei beoti di turno.
Cordiali saluti.
Stim.mo maestro Chierici.
Mi era sfuggito sinora l’ascolto del recital di Kaufmann alla scala del 28.9.18 causa miei problemi lavorativi. Da ormai scafato melomane, sono del 55, mi ritrovo a condividere al 100 % le sue puntuali e precise considerazioni. Soprattutto per quella Celeste che di celeste nulla aveva. Domando solo alla Sua conoscenza se non ha influito in maniera determinante per una scelta così inascoltabile il recente problema alle corde vocali lamentato dal bel Tenore.
Con sincera stima e grande ammirazione
Dario Locatelli