di Cesare Galla
In America c’è chi pensa che l’ultima copia cartacea del New York Times sarà venduta nel 2043. Il calcolo risale a circa un decennio fa e successivamente è stato anche aggiornato (con la concessione di un po’ di tempo in più), ma molti studiosi concordano sul fatto che il destino del giornale stampato sia ormai segnato. In quel fatidico anno, peraltro, negli States la critica musicale potrebbe essere un ricordo da almeno un quindicennio, a prestar fede alla sinistra e amareggiata profezia recentemente espressa da Anne Midgette, prestigiosa firma del Washington Post.
Se questo è lo scenario degli Stati Uniti in un futuro neanche tanto lontano, non è difficile immaginare in che situazione potrebbe trovarsi – di qui a poco – l’informazione musicale in Italia, cioè in un sistema informativo nel quale la critica della musica cosiddetta classica è già relegata nelle varie ed eventuali a cadenza spesso settimanale, o all’insegna dell’antico motto “esce quando può”. E il genere è comunque la Cenerentola nell’ambito del giornalismo sulle “performing arts”, così poco considerato da non trovare neanche “sfogo” sui siti internet di quotidiani e periodici d’informazione, a differenza di quanto avviene in America.
Sulla situazione e sul probabile destino della critica musicale in Italia (non senza sforzarsi di indicare qualche motivo di cauto ottimismo, o almeno di pensiero positivo) fa ora il punto il denso saggio che Federico Capitoni ha pubblicato per l’editore Carocci. Capitoni – che ha trentacinque anni e collabora con Repubblica, Il Sole 24 Ore e RadioRai – ha un approccio di notevole rigore culturale, che deriva dalla sua formazione filosofico-musicale, e una visione molto precisa del ruolo del critico come “mediatore culturale”.
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Il libro offre una sezione storica ed una in certo modo teoretica, nella quale fra semiologia e teoria del linguaggio una volta per tutte si sfata il mito della presunta impossibilità di scrivere sulla musica. Un’assurdità cavalcata (non può essere un caso) specialmente dagli artisti, ovvero dagli “oggetti” delle opinioni critiche, trincerati dietro monumentali sciocchezze come il celebre calembour “Scrivere di musica è come danzare di architettura: davvero una stupidaggine”, o l’altra boutade “Chi sa fare fa, chi non sa fare critica”. C’è un sintetico panorama della stampa musicale specializzata in Italia e soprattutto c’è un’approfondita analisi dei motivi per cui in questo Paese (come peraltro un po’ dappertutto), la critica musicale si sia “biforcata” fra specialisti di classica e specialisti di rock, pop jazz e così via.
La separazione ha generato giornalismi diversi – osserva Capitoni – lasciando il discorso sulla classica affidato a specialisti che in funzione della loro competenza specifica tendono a essere “difficili”, poco capiti da un pubblico che vada oltre quello degli appassionati e mal sopportati all’interno delle redazioni. Diverso il percorso per la musica “leggera”: fin da subito il taglio è stato improntato al giornalismo di costume, sulla scorta di fenomeni molto spesso di massa e di grande impatto mediatico. Suddivisione dannosa: il buon critico non dovrebbe ignorare nessuna delle musiche che valga la pena di ascoltare e quello classico dovrebbe estendere le sue competenze anche al rock e al pop, come da tempo sostiene anche un celebre critico americano, Alex Ross, firma del settimanale New Yorker.
Capitoni coglie il nocciolo del problema della critica musicale in Italia anche nella sua distanza dalle ragioni della cronaca, ovvero – aggiungiamo – dai princìpi del giornalismo “puro” adeguatamente innervato da competenze specifiche (come del resto dev’essere in ogni branca del giornalismo). Le radici marcatamente “accademiche” della critica ne hanno costituto agli albori una peculiarità, che è diventata con il passare del tempo un problema e la fonte di molte incomprensioni ed estraneità fra i giornali e i loro critici. Una guerra persa in partenza, che ha comportato il progressivo prosciugamento degli spazi. L’assenza (la rarità) di tecniche e specificità giornalistiche determina spesso la distanza della critica dalle ragioni della cronaca.
Un fuoriclasse come Fedele d’Amico additava tali ragioni come fondamentali in un convegno su critica e giornali d’informazione organizzato dal mensile Musica Viva ancora nel lontano 1989 (se ne trova la sintesi sul sito internet del fondatore e direttore Lorenzo Arruga). La loro mancanza ha finito per fare della critica musicale un “corpo estraneo” in tanti organi d’informazione. Le poche lodevoli eccezioni sono forse nei giornali locali, dove “raccontare la musica” è ancora considerato necessità di cronaca. Non certo su Internet, la libera e frenetica piazza mediatica (il bar più grande del mondo, lo definisce Capitoni) nella quale le buone pratiche giornalistiche e di competenza musicale sono un optional. Fuori da rapporti redazionali approfonditi e costruttivi, che nascono solo dentro a una logica “di testata” (non necessariamente tradizionale, come questo sito dimostra), la critica musicale resta confusa – come tutto il giornalismo – nell’altissimo rumore di fondo. E il suo destino appare sconsolatamente incerto.
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