di Marco Testa


Della Winterreise, uno dei più celebri cicli di lieder composti da Franz Schubert (e diciamo pure della produzione liederistica tutta), esistono numerose registrazioni. Di queste la stragrande maggioranza è stata realizzata facendo ricorso a delle voci gravi, quindi bassi e baritoni, voci profonde giudicate adatte a riprodurre quelle cupe atmosfere che dominano (o dominerebbero) la totalità della composizione: si pensi, per non limitarsi che ad alcune delle interpretazioni più note, alle registrazioni che ci hanno lasciato Hans Hotter, Dietrich Fischer-Dieskau e, oggi, Thomas Quasthoff insieme a Daniel Barenboim. Nulla di strano, quindi, che ancora oggi generalmente si ritenga che il ciclo richieda l’uso di voci dal registro grave; ma è pure facile comprendere il disappunto di una personalità quale il tenore britannico Ian Bostridge, autore del bel libro intitolato Schubert’s winter journey: anatomy of an obsession (ed. italiana: Il Viaggio d’inverno di Schubert. Anatomia di un’ossesione, Il Saggiatore, pp. 384): Bostridge giudica questa soluzione eccessivamente tendenziosa e persino parzialmente bugiarda.

il-viaggio-dinverno-di-schubert-397x550Ora, sorretto da una profonda conoscenza di questa composizione e provvisto della sensibilità necessaria, egli intende mostrare come in Winterreise le sonorità tenorili siano non solo corrette ed efficaci, ma sovente persino più adatte ad accompagnare il nostro wanderer (figura centrale di tutta la cultura romantica) nel suo viaggio al cospetto dei motivi tipici della cultura di quel secolo (e ciò vale per tutti i ventiquattro lieder che compongono la raccolta). Lasciamo per un momento parlare l’autore: «La Winterreise viene sempre descritta, con mia grande disperazione, come un ciclo “cupo”, più adatto a una voce grave. Forse sono troppo suscettibile, ma trovo che venga messo in discussione il mio diritto di tenore di cantare questo ciclo. Le ragioni di tale scorretta attribuzione sono in gran parte storiche. I due cantanti schubertiani più conosciuti all’interno dello stesso circolo del compositore erano il divo, ormai ritiratosi dalle scene, Johann Michael Vogl e il barone Karl von Schönstein, abile gentiluomo dilettante, entrambi baritoni. Il primo cantante a eseguire l’intero ciclo in un concerto pubblico nel 1860 fu un baritono, Julius Stockhausen. I cantanti delle registrazioni più famose nell’era moderna, Dietrich Fischer-Dieskau e Hans Hotter, erano rispettivamente un baritono e un basso-baritono». Non è vero, protesta quindi Bostridge, che il ciclo si adatta meglio ai registri più gravi: il suono penetrante «di quelle frasi acute nella versione originale di “Wasserflut”, territorio tenorile, sono lì a ricordarcelo».

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Senza contare che Charles Rosen, in quella che è forse la sua opera più straordinaria, La generazione romantica, ci ricorda che in Winterreise il registro grave fa la sua comparsa solamente nel quinto lied della raccolta, Der Lindenbaum (in parallelo all’esordio di uno dei temi romantici per eccellenza – che ricomparirà protagonista nel lied finale – il tema del desiderio della morte). Se l’intero ciclo viene eseguito da un basso o da un baritono, proseguiva il pianista e musicologo statunitense, i giusti rapporti vanno perduti. Fors’anche perché forte di questo avallo, non devono quindi stupire le parole di Bostridge, che ad ogni buon conto non è certo il primo tenore a essersi cimentato nella Winterreise, più volte eseguita, peraltro, anche da diversi contralti, tra cui ricorderemo la registrazione della cantante francese Nathalie Stutzmann.

Ad ogni modo senza contare le non troppo frequenti quanto però appropriate disquisizioni musicologiche di questa natura, il libro di Bostridge ci appare complessivamente più il lavoro di uno storico con una buonissima cultura musicale (e non solo) che il libro di un musicista con una buona cultura storica: e difatti egli si è formato più attraverso la storiografia che attraverso la musicologia, come del resto non ha egli stesso alcuna difficoltà ad ammettere: di essere stato, cioè, e in tempi nemmeno troppo lontani, quasi un analfabeta musicale in termini di conoscenza teorica e tecnica della musica. Supportata da un poderoso e dettagliato sfondo storico, il libro si presenta come un continuo, spesso ben riuscito, tentativo di inquadrare il compositore viennese nella temperie culturale in cui visse, quindi nel suo clima politico (che era quello della Vienna della Restaurazione), una società in fermento di cui Bostridge indaga ogni aspetto costellando il testo di continui riferimenti, suggerendoci momenti di riflessione, indugiando appropriatamente ora nel campo della filosofia tedesca sette-ottocentesca, ora in quello delle scienze naturali (interessantissime le incursioni attraverso la storia dei mutamenti climatici dal Medioevo a nostri giorni, curiosissimo fenomeno dei fuochi fatui oppure, ancora, su quegli straordinari paesaggi ghiacciati che ispirarono alcuni bei versi di P.B. Shelley) sino alla pittura e alla letteratura; il tutto incardinato in un’ottica profondamente tedesca: omaggio a Schubert, il libro è anche un atto di ossequio alla cultura tedesca, vorremmo dire tentativo di fondersi nella Weltanschauung germanica; Bostridge, conoscitore di questa tradizione e della lingua che la veicola, ci pone davanti a quella che è stata una civiltà tra le più decisive dell’universo occidentale, interrogandola e sviscerandone le connessioni con i molteplici campi del sapere e nondimeno con gli aspetti della vita quotidiana. Schubert e la stessa Winterreise non sono comprensibili che alla luce del contesto in cui vennero concepiti e forgiati; da storico, Bostridge mostra di essere ben consapevole di tutto ciò. Schubert iniziò a musicare la Winterreise, i cui versi vennero composti dal poeta berlinese Wilhelm Müller, tra il 1827-28, quindi durante l’ultimissima fase della sua vita. La versione definitiva vedrà la luce il 14 gennaio 1828 a Vienna, a undici mesi dalla morte. Com’è noto si tratta di una raccolta di ventiquattro lieder dai temi più svariati, eppure da ricondurre, secondo l’ottica di Bostridge (il quale deve però ammettere che non è l’unica plausibile) a un’unità, o meglio a una serie di contrasti che paradossalmente mettono in risalto la trama comune tra un lied e quello successivo, sia dal punto di vista strettamente musicale sia da quello concernente la narrazione: non è causale che nell’introduzione Bostridge parli della Winterreise come di un concept album, anzi del primo e più grande dei concept album.

Molteplici quindi sono gli aspetti evidenziati, al punto che il lettore, quale che sia il suo ambito di formazione, quale che sia la sua eventuale inclinazione di artista o lettore, troverà pane per i suoi denti. Bostridge ci accompagna attraverso i molteplici paesaggi che compaiono dinanzi al nostro wanderer con una passione tale da sembrare egli stesso, a tratti, il nostro viandante, la cui parabola è stata accostata, per certi versi, al divino viaggio dantesco; tentativo ardito ancorché forse non completamente campato per aria, fermo restando che l’ambiente e la temperie in cui agisce il nostro Dante poco o nulla ha a che fare con il contesto del berlinese Müller o del viennese Schubert; piuttosto Bostridge mette in luce il contrasto tra il romantico viandante e “gli espressi” postali e le ferrovie che scarrozzavano le persone in giro per l’Europa evidenziando un aspetto curioso: il contrasto tra i tormentati ma calmi motivi della cultura romantica da una parte e le esigenze di una società industriale nascente che si esprimeva con ritmi sempre più frenetici dall’altra, elemento quest’ultimo che nella memoria comune appare legato più alla cultura futurista che a quella romantica. Winterreise è un viaggio attraverso l’amore?

D’altro canto, insieme alla morte, insieme alla lontananza e al tema della perdita, l’amore è un elemento essenziale della cultura romantica. Un amico di Schubert, il drammaturgo Eduard von Bauernfeld, notò (e poi fortunatamente annotò) che nel periodo in cui componeva la Winterreise il compositore si fosse follemente innamorato d’una contessa Esterházy, alla quale dava lezioni di pianoforte; non risulta che il sentimento fosse corrisposto, ma d’altra parte, e con ragione, Bauernfeld affermò che l’amore, purché non causi irrimediabile dolore, ha il vantaggio di alimentare l’arte, e così agì in Schubert mentre componeva il suo ciclo. Ma l’immagine dello Schubert innamorato e dolente perché non corrisposto non deve trarre in inganno: se per certi versi la sua parabola è quella dell’ideale uomo romantico alle prese con ogni sciagura e tormento (le tribolazioni amorose e persino la malattia, quella sifilide che non gli lasciava tregua e di lì a poco lo avrebbe divorato e ucciso), per altri aspetti è la storia della borghesia colta che avanza: in vita Schubert poté godere del successo procuratogli dalla propria musica, successo al quale non era estranea una gratificazione di tipo economico. Era la storia di un borghese della Rivoluzione industriale, situazione di cui un suo “predecessore” come Mozart non poté invece profittare. Che cosa fu, infatti, quel monumentale processo storico che riassumiamo sotto il nome di Rivoluzione francese, se non il progressivo pensionamento della nobiltà a vantaggio della nascente borghesia, la quale sempre più andava a sostituirsi alla prima nel tessuto sociale, politico, culturale ed economico?

C’è un solo momento in cui Bostridge sembra lasciarsi prendere la mano, ed è quando, richiamando l’attenzione del lettore all’evoluzione del corno verso lo strumento a pistoni, ritiene questo “vittima” e non già piuttosto beneficiario della rivoluzione industriale e tecnica, che ha permesso al corno (e alle trombe) di adattarsi a una musica che richiedeva modulazioni sempre più complesse abbandonando gradualmente il macchinoso utilizzo di ritorti da applicare allo strumento. Difficile dire con certezza se tale giudizio sia dovuto al prevalere di un radicato sentimento che richiama il Nostro a un lontano passato (ne La generazione romantica Rosen definisce il suono del corno come il suono della «lontananza, assenza e rammarico”) o a una insufficiente conoscenza delle problematiche con cui cornisti e trombettisti dovettero fare i conti all’epoca. Ma sono peccati veniali in confronto al valore dell’opera, che tra le altre cose ha senz’altro il merito di diffondere maggiormente la cultura del lied, dell’art song come la chiamano gli americani, una forma a ogni modo eminentemente tedesca e che alla Germania ha saputo restituire quanto necessario. Lo sapeva bene Otto von Bismark, che nel 1892 pare avesse affermato: «L’unificazione della Germania non sarebbe stata possibile senza l’arte tedesca, senza la scienza tedesca, e senza la musica tedesca: in particolare il Lied tedesco».

bostridgeIan Bostridge: «È necessario un livello di distacco dall’opera»


di Simeone Pozzini


Pensa sia corretto definire la sua analisi storica, psicologica, sociale come una sorta di romanzo nel romanzo (della Winterreise)?
«Penso sia un buon modo di guardare al mio lavoro. Perché penso che per me non è chiaro se quello che si stia facendo sia una analisi storica o psicologica, in un certo qual modo per me è più una storia che si dipana con Winterreise, ti aiuta a rispondere di essa, aiuta il pubblico a risponderne. Ed aiuta a portare nuova gente ad essa, questo è il mio modo, il mio obiettivo».

Lei ha dedicato molto tempo della sua carriera all’approfondimento di Winterreise: un film, un libro, molti concerti. Ha mai sovrapposto o perduto se stesso nella Winterreise?
«Penso di sentire tutto questo esclusivamente come qualcosa che accade nel momento, poi quando ho fatto un’esecuzione, il giorno dopo se n’è andata. Non mi identifico con il protagonista in alcun modo particolare ad eccezione della parte in cui protagonista è l’uomo (o la donna) comune, in una storia che ha delle caratteristiche di universalità».

Il suo lavoro è davvero approfondito e ricco di spunti, una lettura che sembra tendere ad una verità che illumina e dalle quale è difficile “tornare indietro”. Tuttavia, qualcuno le scrive mai per farle notare altre chiavi di lettura?
«Sicuramente, ha assolutamente senso ed infatti con fequenza ricevo email o comunicazioni di qualcuno che mi fa notare ulteriori contesti. Penso che sia proprio il senso della cultura europea del diciannovesimo secolo, molte cose che scorrono all’interno ed all’esterno di essa, quindi penso che se ne potrebbe scrivere, molto è stato scritto e da parte mia credo che scriverò di altro ora».

Dopo aver interpretato Winterreise centinaia di volte, come si è evoluta la sua idea interpretativa?
«Dipende molto da come mi sento di giorno in giorno. L’attitudine di base è quella che ogni peformance raggiunge un livello di distacco, ma allo stesso modo l’interprete personifica la musica, quindi le emozioni arrivano a riempirti ed arrivano anche a riempire qualsiasi cosa che ti convolga emotivamente nella tua vita, che sia una perdita, una perdita nella tua vita familiare o altro. Ad ogni modo penso che il tuo umore può fare la differenza, ma allo stesso modo penso che ci sia sempre, per ogni cantante professionista, un livello di distacco, perché altrimenti non potresti continuare a fare così tante performance. È come per un attore, sai, l’attore che recita l’Amleto non può identificarsi troppo con Amleto per tutto il tempo».

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Marco Testa

Marco Testa

Cresciuto nell'isola di Sant’Antioco, ha compiuto studi storici e archivistici parallelamente a quelli musicali. Già collaboratore della cattedra di Bibliografia musicale del Conservatorio di Torino e docente dell'Accademia Corale "Stefano Tempia" (guida all'ascolto/storia della musica), attualmente è docente di storia della musica presso IMUSE Torino e collabora con festival e istituti di ricerca. Autore di saggi e articoli pubblicati in riviste specializzate, lavora principalmente per l'Archivio di Stato di Torino e scrive su "Musica - rivista di cultura musicale e discografica" e su "Il Corriere Musicale".

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