Il Maggio Musicale Fiorentino completa l’esecuzione della “trilogia Tudor”: la compagnia di canto è dominata dall’Elisabetta siderea e affilata di Mariella Devia
di Francesco Lora
ANNA BOLENA, MARIA STUARDA E ROBERTO DEVEREUX: è questa la cosiddetta “trilogia Tudor”, che tra le opere di Donizetti racconta storie di regine britanniche e incorona le regine del belcanto; soprattutto per la primadonna, personaggi e situazioni sono formidabili, e la scrittura vocale è senza sconti. Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino può ora vantare una nuova gloria: quella d’aver condotto in porto l’esecuzione di tutti e tre i titoli in tempi ravvicinati, e di averlo fatto (unica istituzione in Italia e nel mondo) con una protagonista d’eccezione qual è Mariella Devia. Dopo l’Anna Bolena del 2012 in forma scenica e la Maria Stuarda dell’anno passato in forma di concerto, entrambe al Teatro Comunale, gli scorsi 18 e 20 maggio è stata la volta del Roberto Devereux, eseguito in forma di concerto nel nuovo Teatro dell’Opera. Né va dimenticato che nel 2011 vi era stato un prologo a tutta l’operazione, quando la Devia stessa aveva presentato in una medesima serata fiorentina le scene finali delle tre opere. Il ricordo di quell’anteprima permette di misurare quanta maturità interpretativa ella abbia accumulato, da allora via via fino a oggi.
Ciò vale in particolare per il Roberto Devereux, l’ultima opera da lei debuttata (fine 2011) e la meno convenzionale dal punto di vista drammaturgico: a differenza delle altre protagoniste, la Bolena e la Stuarda, Elisabetta Tudor non è regina consorte ripudiata o regina titolare prigioniera, ma regina titolare nel pieno ed energico esercizio dei suoi poteri, sospesa tra affetti privati e ragione di Stato. La Devia ne fa un personaggio-capolavoro: mai l’avevamo ascoltata con canto più asciuttamente sidereo e affilato nel porgere, inscalfibile come il diamante e compatto come il granito. Il declino vocale è in atto: l’agilità si è fatta laboriosa e i sopracuti sono prudenti; ma va anche detto che l’agilità ha oggi una forza martellata ieri impensabile e che i sopracuti pesano ora tonnellate di suono: da ciò consegue un’inedita colossalità di esibizione virtuosistica e di definizione psicologica. Il personaggio messo a punto è tanto chiaro da poter essere compiutamente descritto in poche parole, senza inseguire questo o quel dettaglio specifico: una donna di ghiaccio impenetrabile, immobile nel gesto e impassibile nell’eloquio, cui compete non l’esprimere emozioni, ma far tenere il fiato in sospeso per ammirazione e timore. Un minimo indugio agogico, un minimo calore timbrico, sparsi qui e là quasi per errore, bastano a far ricordare la donna trattenuta suo malgrado dietro lo scettro e la corona. E il momento di maggior vivacità interpretativa, un brio feroce e compiaciuto piuttosto che uno sfogo furente, scocca proprio nel proclamare la condanna dell’amato-odiato Roberto. In questa Elisabetta, tutta giocata sul togliere e sullo spianare in nome del cerimoniale, si ritrova una prova non solo vocale, ma anche attoriale che scuote e turba con la forza del motore immobile.
Alla corte della Devia si trova poi innanzitutto il tenore Celso Albelo, nella parte eponima. L’accento non entusiasma, poiché di Giuseppe Sabbatini ce n’è stato uno solo, e la memoria non è poi così corta. Ma il timbro ha una di quelle fragranze latine impagabili, la dizione non fa perdere una parola, l’acuta tessitura è sorvolata con una facilità spiazzante. A conti fatti, il teatro d’opera odierno non ha forse un più degno Roberto. Nella parte del Duca di Nottingham, Paolo Gavanelli sostituisce il previsto Gabriele Viviani. E il discorso è imbarazzante oggi come vent’anni fa: baritono robusto, attore solerte e fraseggiatore accurato, egli ha nondimeno intonazione sempre allo sbando ed emissione ingolata e affannosa; una spiacevole dicotomia artistica. Un’eccellente promessa è invece la giovane Chiara Amarù nella parte di Sara: mezzosoprano che contralteggia volentieri e sale all’acuto con nitore sopranile, oltre che interprete palpitante, ci fa tornare alla mente gli esordi di Sonia Ganassi (e crediamo così di farle un complimento). Si apprezza infine la direzione di Paolo Arrivabeni: fa eseguire la partitura senza tagli, sa sostenere il canto senza troppi rovelli teatrali ma sempre con brillantezza e flessibilità, converte insomma la metallica artiglieria di Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino alle più cordiali ragioni di Donizetti.
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