Dopo una problematica inaugurazione con Armida, il ROF decolla con Il barbiere di Siviglia e Aureliano in Palmira. Tra i nomi di punta: Ronconi, Bordogna, Esposito, Spyres e Pratt. Già annunciati titoli dell’edizione 2015
di Francesco Lora
SENZA CHE RICORRA ALCUN ANNIVERSARIO PARTICOLARE, in questo 2014 Gioachino Rossini fa festa grande. Gli spettacoli a lui dedicati, da un teatro all’altro del mondo, sono più numerosi, impegnati e coraggiosi del consueto: si va dall’Otello di Anversa e Gand al Maometto II di Roma, dal Guglielmo Tell di Torino ai Guillaume Tell di Bruxelles, Monaco di Baviera e Bologna, dal Comte Ory di Milano all’Inganno felice di Venezia, dalla Semiramide di Lione al Moïse et Pharaon di Marsiglia, dalla Pietra del paragone di Parigi/Châtelet al Tancredi di Parigi/Champs-Élysées; per non parlare del Festival di Pentecoste di Salisburgo, quest’anno tutto dedicato al Cigno di Pesaro, e del Festival di Bad Wildbad, rossiniano quest’anno come sempre. Molto più della solita carrellata d’Italiane, Barbieri e Cenerentole.
La parte del leone spetta comunque al Rossini Opera Festival di Pesaro, casa madre del belcanto in Italia e luogo di pellegrinaggio per gli odierni Stendhal: anche quest’anno nella città marchigiana, tra uno spettacolo e l’altro dal 10 al 22 agosto, a ogni passo per il centro o in spiaggia si incontrava un artista ammirato, un collega critico, un amico melomane; erano, eravamo tutti lì. Clima d’amicizia e confronto, di entusiasmi e proteste, di cacce al biglietto e cene notturne: al ROF si vive di Rossini dalla prima all’ultim’ora del giorno. Inframmezzate da incontri con il pubblico, concerti di canto e da camera, una Messe solennelle e il tradizionale Viaggio a Reims dei giovani dell’Accademia Rossiniana, ecco le tre opere presentate in questa XXXV edizione: la fantastica Armida (Napoli 1817), il comico Barbiere di Siviglia (Roma 1816), il serio Aureliano in Palmira (Milano 1813).
ARMIDA
Su soggetto tassesco, Armida è la terza opera rossiniana composta per il Teatro di San Carlo, forse la più fondata nello stile strumentale del Romanticismo tedesco e forse la più ardita nella distribuzione vocale: una sola donna, primadonna onnipresente e strapotente, due bassi e ben sei tenori (cinque dei quali hanno alte responsabilità). Capolavoro sfuggente alle convenzioni e di onerosissimo allestimento, al ROF Armida era comparsa una sola volta e mancava dalla bellezza di ventun anni. Non è tuttavia mancato il trait d’union con quello spettacolo del 1993: là, nel piccolo Teatro Rossini, v’era uno spettacolo con regìa di Luca Ronconi; qui, nell’immensa Adriatic Arena, v’è uno spettacolo affatto nuovo ma di nuovo firmato da Ronconi. Bisticci di parole: la novità, nei fatti, è proprio ciò che latita, insieme con la cifra stessa del lavoro registico.
I legami tra i due spettacoli sono occasionali, a dimostrazione di una nuova idea sull’opera; ma tale nuova idea risulta concettualmente esile esile: è di fatto realizzata solo nelle scene di Margherita Palli e nei costumi di Giovanna Buzzi, e risulta tanto efficace al colpo d’occhio sul tableau vivant quanto problematica nell’evolvere in azione. Quando la Compagnia Abbondanza-Bertoni attacca il quarto d’ora di danze, promettendo una coreografia narrativa sulle storie della Gerusalemme liberata e cadendo invece in un’astrazione rumorosa e confusa, la débâcle è conclamata. Pure, nella circostante parata di paladini vestiti come pupi siciliani, con i loro pennacchi rossi e le loro corazze d’argento, in quei demoni-pipistrelli e in quell’alcova d’oro, e persino nella didascalica apparizione di Vendetta e Amore personificati, rivive una goccia del leggendario Orlando furioso ronconiano del 1969-75: forse un giorno ricorderemo con un filo di rimpianto anche quest’Armida.
Carlo Rizzi non è un direttore filologo propenso a svelare la partitura scrostata, né un direttore sinfonista propenso a svelare il Weber in Rossini, né un direttore belcantista propenso a compiacere i cantanti a ogni costo. Dopo qualche sbavatura alla prima recita, all’ultima tiene ormai saldamente le redini dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna (nonché del relativo Coro, che dopo la partenza del maestro Lorenzo Fratini campa però di rendita e inizia a perder colpi tecnici): impone un ritmo musicale e teatrale più pimpante e meno maestoso di quello ascoltato nel ’93 da Daniele Gatti, e si affaccenda con onore al cospetto d’una compagnia di canto deficitaria sui fronti principali.
Rimarrà un mistero come Carmen Romeu sia rimasta ferma al proprio posto senza un prudente ripensamento. La parte di Armida è tra la più spettacolose diavolerie pensate da Rossini per le doti virtuosistiche ed espressive di Isabella Colbràn: nel ’93 Renée Fleming ne aveva fatta una delle sue più perentorie apparizioni; oggi una Joyce DiDonato potrebbe essere la cantante ideale per reggere al mostruoso impegno. La Romeu recita con impegno e perizia, ma non basta la buona volontà a miracolare mezzi canori insufficienti: se l’agilità è graziosa, non energica, ma decorosa, l’accento rimane monotono, querulo e timido anziché seduttore, fastoso e furente, mentre lo staccarsi dal rigo verso il Do sopracuto o il Sol grave comporta il passaggio da suoni già esitanti a esausti fiotti d’aria. Alle difficoltà della primadonna corrisponde l’inerzia del suo tenore amoroso: passi che Antonino Siragusa, nella parte baritenorile di Rinaldo, ha al contrario calibro leggero; ma l’alleggerimento a oltranza finisce con il rasentare l’evanescenza, e nasconde solo in parte – a dimostrazione dell’estraneità alla tessitura – un’emissione fibrosa, una coloratura arruffata e un registro acuto non esente da forzature; il porgere stesso, cordiale e monocorde come quello di un Nemorino, liquida i versi poetici e dà il colpo di grazia a un personaggio – emblema stesso della bellezza cavalleresca – che la costumista lascia cinicamente tozzo e calvo.
Non ben a fuoco sono a loro volta Randall Bills, che di Goffredo e Ubaldo ha le note ma non la valorosa disinvoltura, e Vassilis Kavayas, appena funzionale alla piccola parte di Eustazio. Piacciono invece il Gernardo e il Carlo di Dmitry Korchak, spesso sopra le righe per esuberanza e anch’egli fibrosetto d’emissione, ma almeno vivo nell’interpretazione e squillante nel registro acuto. Ed eccellente è infine il basso Carlo Lepore nelle fosche parti di Idraote e Astarotte, cui egli offre il fraseggio puntiglioso tipico di chi si sia fatto le ossa sul repertorio secentesco. Bilancio amarognolo per quello che doveva essere l’allestimento di punta: ma altre due frecce sicure, puntate verso Siviglia e Palmira, restano all’arco del ROF 2014.
Il BARBIERE DI SIVIGLIA
Nel Teatro Rossini Il barbiere di Siviglia doveva essere rappresentato in economica forma semiscenica. Affidato ai giovani dell’Accademia di Belle Arti di Urbino, un’idea dopo l’altra e a pari costo, esso ha invece trovato una vera regìa, vere scene e veri costumi. Idee sciolte, intendiamoci, “trovate” alla portata di chi operi su libretto e partitura senza possedere appieno i codici d’accesso al teatro d’opera, ma pur sempre idee che tengono alta la vivacità di uno spettacolo senza ledere lo spirito della commedia originale: Figaro che attacca la travolgente cavatina alzandosi a sorpresa da una poltrona di platea, Basilio in ipocrita abito talare ma personaggio studiato anziché facile macchietta, Bartolo che nella scena della lezione è tenuto a bada con l’ipnosi. Spiace solo il continuo trasferirsi dell’azione dal palcoscenico ai corridoi di platea: è uno di quei procedimenti che garbano ai registi e al pubblico occasionale, ma non alla fronda di melomani che vuol ben vedere e ben ascoltare.
Eccellente il discorso musicale. La concertazione di Giacomo Sagripanti è rivelatoria: alla testa dell’orchestra bolognese, egli non si stanca di far suonare piano, e nel contempo infila una ricerca agogica e dinamica geniale, studiata senza calligrafismi dalla prima all’ultima battuta; con il culmine in una stretta del Finale I mai udita più mulinellante, si ascolta il Barbiere come se fosse la prima volta, attraverso controcanti palesi, finezze cameristiche e ammicchi impliciti finora rimasti nascosti nella partitura. La pigrizia della tradizione soffia forte anche nell’epoca delle edizioni critiche: manco a dirlo, con questa direzione balzano invece all’orecchio le tante emende della nuova edizione a cura di Alberto Zedda: tra le altre cose, la vistosa abolizione di una falsa relazione nella Sinfonia, il ripristino di versi nella reazione di Bartolo all’aria della calunnia, la correzione di errori nel rondò del Conte d’Almaviva.
Prossima all’idealità la compagnia di canto: niente mostri sacri, ma giovani che hanno davvero qualcosa da dire sul Barbiere. V’è innanzitutto la scoperta del ROF 2014: il debuttante ed emergente Florian Sempey è un ragazzone che si mette in tasca i migliori Figaro in circolazione, con timbro omogeneo, emissione spavalda, acuti pieni di smalto, vocalizzazione non indegna del passaggio a Dandini, verve ancora misurata ma carica di semplice simpatia. A sua volta, non è il luogo per chiedersi quale potrà essere il contributo di Chiara Amarù ai grandi ruoli rossiniani en travesti: è per ora certo che la sua Rosina, così istintiva e schietta nel porgere, così polposamente femminile nel timbro, così brillante nell’agilità e morbida nel cantabile, fissi un’interpretazione di riferimento; non una diva prestata a Rosina, ma una Rosina in carne e ossa.
Tenore d’impostazione leggera, Juan Francisco Gatell è il Conte adolescenziale della tradizione piuttosto che il potente grande di Spagna; l’interprete non è un virtuoso della caratura di Rockwell Blake o Juan Diego Flórez, ma la sua lettura scenica è affabile come di rado si vede da altri, e la sua lettura musicale è impegnata, attenta, all’altezza delle insidie della partitura (rondò compreso). Conviene tenerlo d’occhio anche alla luce del suo recital del 18 agosto nell’Auditorium Pedrotti: si notano il camaleontico acclimatamento stilistico da Mozart a Piazzolla, il sorprendente talento attoriale ove vi siano da sguainare parola e gesto, il notevole allargamento di calibro nel cileiano “Lamento di Federico”. Tornando al Barbiere: puntuali la Berta di Felicia Bongiovanni e il Fiorello e l’Ufficiale di Andrea Vincenzo Bonsignore. Eccezionali senza bisogno di presentazioni aggiuntive il Bartolo di Paolo Bordogna, macchina di sapere comico senza mai cedere alla caricatura, e il Basilio superbamente recitato e cantato da Alex Esposito: voglia egli recuperare, dopo l’occasione mancata a Roma, il debutto nel Maometto II.
AURELIANO IN PALMIRA
Mai rappresentato al ROF prima di quest’anno, Aureliano in Palmira ha fatto il suo ingresso al Teatro Rossini nell’edizione critica di Will Crutchfield, la quale ha ripristinato un buon numero di passi dispersi (sin dalle prime recite milanesi) e fatto ordine tra il materiale integrativo (variazioni e cadenze d’epoca). Ha senso recensire partendo dall’aspetto musicologico poiché il Crutchfield editore è lo stesso Crutchfield che nel festival ha assunto la direzione delle musiche e ha tenuto un’affollatissima conferenza-concerto. È questo il raro caso di uno studioso-musicista forte di autonomia intellettuale e generosità artistica, da un capo all’altro della produzione dello spettacolo: dall’approntamento dei materiali al loro uso ed esegesi pratica, fino alla divulgazione presso appassionati e musicologi. Ed è questo il caso di un mattatore in grado di incantare i profani parlando di ricercatezze armoniche: l’applauditissima conferenza-concerto, dedicata all’arte dell’ornamentazione del castrato Giovanni Battista Velluti, primo interprete della parte di Arsace nell’Aureliano, ha rischiato di trasformarsi nell’evento di punta del festival.
Da lì a dire pregiudizialmente che il Crutchfield direttore sia una modesta appendice del Crutchfield studioso, il passo è breve; e molti l’hanno fatto. Al contrario, la direzione di Crutchfield è un esempio di mestiere solido: l’Orchestra sinfonica “G. Rossini”, compagine in sé modesta, cui s’affianca il coro bolognese, grazie a lui suona con rara coscienza stilistica e si fa perdonare qualche indugio nei passaggi solistici. V’è poco spazio per la fantasia, che d’altra parte non potrebbe aver cittadinanza nella lettura di chi ha scientificamente restaurato la partitura; v’è invece molto spazio per il lavoro coi cantanti, al fine di restituire loro il primato nella gerarchia dello spettacolo. Notizie ottime, insomma, mentre in secondo piano rimane la regìa di Mario Martone: egli richiede a Sergio Tramonti scene minimali, e a Ursula Patzak costumi che evochino il confronto tra civiltà diverse (Roma vs. Palmira); umile e inattesa è la sua apertura alla didascalia, con il palcoscenico percorso da capre nella gran scena di Arsace (contesto pastorale) e con gli epiloghi della storia reale proiettati mentre la scena accoglie quelli dell’invenzione teatrale.
La compagnia di canto è dominata da due eroi del canto rossiniano odierno. Il primo, come Aureliano, è Michael Spyres, prototipo del tenore baritonale mancato all’Armida, scolpito nell’accento, impavido nell’ascesa al registro sopracuto (che tuttavia schioccava più lucido nel Ciro in Babilonia di due anni fa) e rimbombante nella discesa a quello grave (che al contrario sembra aver acquisito ulteriore sostanza). La seconda, come Zenobia, è Jessica Pratt, voce sopranile vibrante e radiosa quanto più si alzino i cieli del pentagramma, primadonna entusiasta e trascinante, artista che accetta la sfida di variazioni audaci anche a costo d’incrinare qualche suono: è una di quelle musiciste che, con la loro tempra, forgiano il clima di un festival.
Rinunciataria, invece, la scelta di Lena Belkina per la parte d’Arsace: buon mezzosoprano dal timbro vellutato – come riconfermato nel concerto del 17 agosto nel Teatro Rossini a fianco della Romeu, dove ha spaziato dai duetti del Tancredi alla “Canzone del salice” dell’Otello – ella non vanta tuttavia la cultura retorica, l’esuberanza virtuosistica e il carisma attoriale sottintesi alla rilevanza del ruolo. Per incisività e smalto è così insidiata dalla seconda donna, il rigoglioso e prestante mezzosoprano Raffaella Lupinacci nella parte di Publia. Efficiente il contorno: Dempsey Rivera come Oraspe, Sergio Vitale come Licinio, Dimitri Pkhaladze come Gran Sacerdote e Raffaelle Costantini come Pastore. Già annunciati i titoli del ROF 2015: La donna del lago, La gazzetta e Ciro in Babilonia, più l’esecuzione della rara e sontuosa Messa di Gloria.