Contemporanea • Nuova registrazione per la compositrice romana con un ampio cast di interpreti ed una serie di opere che tracciano un profilo artistico ricco di spunti di riflessione, non solo musicale
di Paolo Tarsi
A nche se probabilmente non è corretto definire quella di Silvia Colasanti come una musica neoespressionista, si nota fin da un primo ascolto come una delle radici che ispirano il lavoro di questa compositrice (tra le più affermate della sua generazione) è sicuramente quella del tardo romanticismo, così come l’espressionismo europeo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. La sua musica, piena di rilievi, trae dalla realtà circostante tutti gli elementi che essa le suggerisce, elementi che vengono filtrati e combinati come autentiche molecole sonore prima di essere trasferiti dalla musicista nelle sue partiture, spesso determinate proprio dall’idea di microvariazione.
Il lirismo è l’elemento caratterizzante de Il canto di Atropo. Ricordo di un Maestro, per violino e orchestra, in cui quest’ultima – qui la Verdi diretta da Damian Iorio – risuona quasi raddoppiata attraverso il violino di Massimo Quarta, come in una sorta di cassa armonica. Un ambiente di risonanza che privilegia intervalli di seconde minori e quarte diminuite, per approdare a un romanticismo che nei tre accordi conclusivi (e solo in quelli) si fa takemitsiano. Il concerto tratta il tema della morte attraverso la figura di Atropo (la più anziana delle tre Parche), uno dei simboli della classicità, chiamata anche l’“inflessibile”. Era Atropo, infatti, come in un inesorabile appuntamento al quale non si può sfuggire, a tagliare il filo della vita al momento stabilito. «La morte completa il montaggio della nostra vita – scrive la compositrice nelle note introduttive al disco – ne ricompone in un ordine narrativo i momenti significativi, facendo del nostro instabile e incerto presente un passato chiaro».
Ricco di contrasti, con echi di Webern nel suo slancio lirico, La rosa que no canto, scritto per il Quartetto di Cremona (che lo esegue anche qui nel Cd), è il primo quartetto d’archi composto dalla Colasanti e presenta un tema cantabile in cui i punti lirici, che risaltano la viola, incontrano la pulsazione ritmica intrecciandosi insieme al violoncello. Il quartetto ha un riferimento programmatico – esplicitato nel breve frammento finale della composizione – tratto da La rosa profunda di Jorge Luis Borges, e come il testo del poeta argentino descrive le differenti metafore del fiore, così il quartetto di Silvia Colasanti intona le diverse figure del suono. Anche se l’intervento della voce recitante di Carlo Pestelli risulta essere lontano dal testo musicale, mancando un vero punto di incontro proprio sul piano sonoro. Il quartetto potrebbe infatti benissimo essere eseguito anche senza la declamazione dei versi di Borges, ripercorrendo implicitamente le diverse immagini legate al fiore (così com’è, però, terminerebbe senza realmente concludersi).
L’elemento ritmico caratterizza in maniera ancor più evidente il quintetto To muddy death. Ophelia, qui interpretato dall’eccellente Algoritmo Ensemble diretto da Marco Angius e in cui, come nota il musicologo Guido Barbieri, «ogni strumento, in questo lavoro spigoloso e duro, è Ofelia, ogni strumento è una tessera del mosaico disordinato della sua voce». È il momento migliore dell’album per chi pensa che possa essere più salutare per la giovane compositrice parlare al nostro presente contenendo il più possibile le «esasperazioni espressioniste», anche se le atmosfere decadentistiche la fanno come sempre da padrone. Ma è un brano che si adatta benissimo, almeno nei momenti più “martellanti”, anche alle sonorità appuntite e angolose che caratterizzano larga parte del repertorio proposto dall’ensemble Sentieri Selvaggi (che ha più volte eseguito il brano).
Così come nei suoi lavori per il teatro musicale, anche in Chaos. Commento a Haydn, Hob. XXI:2, Ouverture – commissionato alla compositrice romana dall’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano e qui inciso sotto la direzione di György Györgivanyi Ráth – la realtà attuale appare trasfigurata attraverso elementi del passato. Del resto nella sua Ouverture Die Schöpfung – a cui fa fede il testo musicale della Colasanti – Haydn racconta la nascita dell’universo in modo molto moderno, partendo da un unisono e plasmando attraverso il linguaggio della sua epoca una materia informe e magmatica, utilizzando tutti i mezzi musicali a disposizione. Man mano che vengono delineate le forme, nell’opera della Colasanti si aprono degli squarci in cui si intravede poco a poco il volto di Haydn (ma sempre come in filigrana), un Haydn che durante tutto questo omaggio viene sempre evocato, e soltanto verso la fine verrà esplicitato in maniera più chiara, con un finale luminosissimo, simbolo di ciò che l’accordo maggiore è diventato duecento anni dopo (per Haydn il finale della rappresentazione del Caos era un trionfante accordo di do maggiore). Forse il filo conduttore tra Haydn e la Colasanti sta proprio nella ricerca della chiarezza, a partire dal punto di vista di una scrittura votata alla classicità, che nell’opera della compositrice si traduce in una partitura profondamente ricca di colori.
Silvia Colasanti – In-canto | Orchestra Verdi (dir. Damian Iorio), Orchestra Haydn di Trento e Bolzano (dir. György Györgivanyi Ráth), Algoritmo Ensemble (dir. Marco Angius), Quartetto di Cremona (Carlo Pestelli, voce recitante) | Dynamic CDS671
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