di Giampiero Cane
Si è concluso nei giorni scorsi il programma di Musica Insieme, associazione bolognese per il concertismo, l’esecuzione dei quartetti di Šostakovič, 15 in tutto non essendo riuscito il compositore russo a completare il suo piano che pare ne prevedesse 24, cioè uno per ognuna delle tonalità. Il programma si è svolto in 5 serate, ciascuna con 3 quartetti. Gli esecutori sono stati 5 gruppi diversi, il Quartetto Dàilalos, il César Frank, il Noûs, il Guadagnini e l’Adorno. Non si capisce perché il musicista fantasticasse di scrivere uno per ciascuna tonalità, dal momento che la tonalità in chiave non è da lui conservata mai per l’intero pezzo, anzi, lo spostamento armonico è frequente e piuttosto vario.
Il timbro di queste musiche invece è alquanto uniforme: rispecchia un mondo tetro per lo più, un colore tra un grigio, diciamo “padano” ed uno “fumo” o “londinese”, e in questa quasi monocromia solo raramente si inseriscono episodi che, isolati come sono, sembrano più colorati di quanto non siano non realtà.
Bisogna però riconoscere che è difficile prendere posizione su quale sia questa “realtà”. Queste musiche del russo non appartengono infatti al repertorio, difficilmente si incontrano frequentando i concerti, raion per cui non abbiano a disposizione un rifermento che si possa dire standard per valutare le varianti esecutive. Il discorso critico su questa produzione del musicista di Pietroburgo è ancora piuttosto carente sia nella forma dei saggi critici che in quello della performance esecutiva. Alcune sue musiche hanno avuto una certa fortuna, le opere come Il naso e la Lady Macbeth poi diventata l’Izmajlova, alcune delle quindici sinfonie, delle quali la più nota è forse la numero sette, in Do magg. Detta “Di Leningrado”, quest’ultima molto impegnata nei valori alti o civili, ma ci sono cose nel catalogo del russo che sono straordinariamente divertenti, come il Tahiti Trot, rielaborazione di Tea for Two, o la polka-galop di Strauss che nelle sue mani diventa Vergnügungzug, o l’orchestrazione dell’Internazionale che ci mostrano un volto che nei quartetti per archi non compare praticamente mai.
Abbiamo mancato, per forza maggiore, un concerto, quello del Guadagnini, ma gli altri, tolto quello in cui sono stati eseguiti i quartetti 7, 8 e 9 (quartetto Noûs) la tetraggine ha fornito l’atmosfera costante della narrazione. Nei quartetti 8 e 9 c’erano improvvise luci, qualche abbandono, il brillio d’un sorriso che ci fecero pensare che il compositore si fosse finalmente accorto che il suo Persecutore personale, Stalin, era morto e che già lo avevano seguito alcuni dei suoi fedelissimi o quantomeno reverenti seguaci.
Non si sa proprio perché lo zar tiranno se la fosse presa a cuore contro quell’omino pacifico e imbelle che è ritratto con gli occhiali tondi e sempre in atteggiamenti miti dalla sufficiente iconografia. Ma qualunque sia stato il motore della persecuzione, essa era in atto, incomprensibilmente pesante contro un musicista, cioè una persona creativa in un campo artistico che il superman russo nemmeno privilegiava. Sarà stato forse un effetto Zdanov, vien da dire per scaricare un po’ Stalin di tutte le accuse che s’è tirato addosso.
Tornando ai quartetti non è che siano fonte di immediato piacere, ma bisogna riconoscerli costruiti con ferma serietà, invasi da un’emozione cupa, ma ben evidente, di poca soddisfazione all’esecuzione, ma di altrettanta scuola.
Il pubblico bolognese è venuto aumentando da metà del percorso in poi. Dev’essere stato effetto di un passaparola favorevole alla proposta perché l’informazione critica è stata praticamente assente. Nessuno ha puntato sull’evento. Parolaccia che oggi si consuma anche per una tazzina di caffè.