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Opera • L’inaugurazione dell’anno verdiano alla Bayerische Staatsoper si è tenuta con un nuovo allestimento affidato al regista Arpád Schilling. Apprezzabile la compagnia di canto, meno la direzione di Marco Armiliato
di Gianluigi Mattietti
L a Bayerische Staatsoper ha inaugurato l’anno verdiano con un nuovo allestimento di Rigoletto, firmato da Árpád Schilling, regista ungherese molto amato in Francia, che a Monaco aveva già messo in scena la Cenerentola di Rossini. La sua regia non giocava sul tradizionale contrasto tra l’elemento dinamico, festoso, variopinto della corte e il mondo interiore di Rigoletto e Gilda, ma quasi invertiva i termini della dialettica drammatica: i cortigiani erano rappresentati come un coro statico, schierato su due gradinate mobili che costituivano anche l’unico apparato scenico dell’opera (scene e costumi erano di Márton Ágh), disposte con angolazioni diverse nelle diverse scene. Una massa anonima di osservatori mascherati, che assistevano impassibili allo svolgersi della vicenda, come un tableau monocromo (tutti erano in abiti bianchi o color crema) spesso in ombra, o trascolorante sotto le abili luci di Christian Kass. Nel primo atto erano schierati in maniera compatta, come una muraglia, nel secondo erano disposti in ordine sparso nella sala del palazzo ducale, ma sempre statici, come monoliti tra i quali si aggirava prima, disperato, Rigoletto, poi Gilda appena uscita dalla stanza del duca con una sgargiante vestaglia a fiori. I monologhi e i dialoghi tra i personaggi principali si stagliavano così sempre in primo piano, spesso sul proscenio, sulla buca del suggeritore, ed erano sempre nettamente illuminati, accompagnati da una gestualità stilizzata, ma molto espressiva.
Anche i costumi erano semplici, moderni, assai informali (Gilda entrava ad esempio in scena in un abbigliamento domestico, con jeans e felpa; il duca le faceva visita con un cardigan color beige) e contribuivano bene alla caratterizzazione dei personaggi. Alcune soluzioni simboliche erano d’effetto e di facile decifrazione (quando Rigoletto abbandonava il suo ruolo di giullare, semplicemente togliendosi la maschera, si illuminavano tutte le luci in sala), altre trovate parevano più criptiche e forzate (Rigoletto non aveva gobba né altra deformità; Sparafucile circolava trascinando una sedia a rotelle della ruote enormi, simbolo di infermità, sedia per interrogatori, “altare” per il sacrificio di Gilda; non c’era sacco nella scena finale, ma l’assassinio di Gilda avveniva come uno statico rituale, con Maddalena che le versava del liquido nero sull’abito immacolato), ma nell’insieme lo spettacolo reggeva bene, con una tensione costante, e con i principali snodi drammatici sottolineati dalle luci e da alcuni azzeccati dispositivi scenici: nel primo atto Monterone (con una maschera nera) appariva in una fessura a zig zag che si apriva tra gli spalti; Gilda faceva il suo ingresso accompagnata da un enorme velo bianco, che costituiva poi un elemento fondamentale anche nel secondo atto, come un diaframma, capace anche di piegarsi in diverse forme, e dietro al quale si intravedeva la gigantesca scultura di un cavallo, chiara allusione agli appetiti del duca; nella scena finale Gilda si allontanava verso il fondale nero, come avviandosi nel regno dei morti, in un’immagine che ricordava più i dipinti di Füssli che le rive del Mincio.
Ottima l’interpretazione di Franco Vassallo nei panni del protagonista, non sempre omogeneo nell’emissione (soprattutto nel piano e nel registro grave), ma dotato di un bel timbro caldo e di grande forza espressiva, di grande umanità nella sua recitazione, anche con uno slancio giovanile, molto vigoroso, nell’aria della vendetta. Patricia Petibon, al suo debutto nel ruolo di Gilda, sfoggiava una voce vellutata, piena di nuances, non copiosa ma agilissima, dava a Gilda una forte personalità, audace, combattiva, anche incalzante nelle conversazioni col padre, con sguardi eloquenti, scatti improvvisi, cantava «Caro nome» aggirandosi sugli spalti, tra i cortigiani immobili, quasi volesse umanizzarli, per poi addormentarsi tra le loro braccia. Il duca era un possente Joseph Calleja, “Heldentenor” nato a Malta e da poco lanciato nello star-system (come testimoniano i suoi due recenti cd della Decca), con un’ottima tecnica (nonostante un vibrato strettissimo), un canto pieno di sfaccettature e mezze voci, momenti di dolcezza e di impeto. I due fratelli, lo Sparafucile di Dimitry Ivashchenko (che interpretava anche la parte di Monterone, e che a Monaco farà anche Boris Godunov) e la Maddalena di Nadia Krasteva (che cantava anche nel ruolo di Giovanna) parevano molto affiatati. Ivashchenko era uno Sparafucile demoniaco, alla Ghiaurov, la Krasteva aveva invece una voce potente e una grande vis teatrale (una Maddalena moderna, sexy, anche un po’ trash), anche se la sua emissione era molto diseguale tra i vari registri. Fantastica la prova del coro della Staatsoper diretto da Stellario Fagone, meno interessante quella di Marco Armiliato, che dirigeva con buon mestiere ma con una eccessiva inclinazione per i grandi fragori orchestrali e per i tempi veloci: una lettura poco raffinata e con diverse imprecisioni ritmiche negli insiemi.
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