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ZeitRäume a Basilea

Una rassegna internazionale che fa dialogare musica e architettura contemporanee. Foto © Susanna Drescher

di Gianluigi Mattietti
28 Settembre 2021
in XX e XXI
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Home XX e XXI
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di Gianluigi Mattietti

Basilea ha una reputazione internazionale come città dell’architettura e una lunga tradizione nel campo della nuova musica. Non a caso proprio a Basilea è nato il festival ZeitRäume, una rassegna internazionale che fa dialogare musica e architettura contemporanee, e che richiama un vasto pubblico esplorando nuovi spazi per il suono, e le possibilità che le moderne tecnologie offrono al confronto tra arti diverse.

Uno degli eventi clou è stato un concerto della Sinfonieorchester Basel, diretta dall’ottimo Clemens Heil, con tre lavori basati su diverse modalità di spazializzazione del suono. In Seven di Peter Eötvös, concerto per violino (solista Sebastian Bohren) composto nel 2006 in memoria dei sette astronauti morti nel disastro dello space shuttle, l’orchestra era suddivisa in sette gruppi, immaginati come altrettanti satelliti, o «anime che fluttuano sonoramente nello spazio». Sei era invece il numero chiave di Goblin, pezzo in prima mondiale della compositrice basileese Helena Winkelman, perché destinato a sei percussionisti disposti nello spazio, ed articolato in sei movimenti: la successione di questi movimenti, ciascuno dotato di una precisa caratterizzazione timbrica e un inviluppo dinamico in crescendo, culminava in un finale dal carattere estroverso, ritmicamente scandito, trascinante come una cavalcata. La novità più attesa era però Pflaumenblüten dell’austriaco Klaus Lang, già prevista per la Ruhr Triennale, poi cancellata. Ispirandosi al dipinto Fiori di prugna rossi e bianchi del pittore giapponese Ogata Kōrin (1658-1716), e ai suoi processi temporali che rappresentano la transitorietà (l’acqua che scorre di un fiume, come processo infinito; la crescita degli alberi, come processo teleologico; lo sbocciare e l’appassire dei fiori, come processo ciclico), il compositore austriaco ha creato una musica sospesa, incantata, prolungando il tempo del suono per creare degli «spazi quasi senza tempo»: la musica giocava sui riverberi creati da gruppi orchestrali diversi dislocati nello spazio, su variazioni di densità della texture orchestrale, ma soprattutto su un gioco “modulante” tra campi armonici dissonanti e consonanti, lavorando su materiale diatonico elementare. Privo di effetti strumentali, era un pezzo dal vero respiro sinfonico (nel quale si potevano cogliere echi di Strauss e di Wagner), mosso da tensioni cadenzali, con lenti glissati che spostavano intere masse armoniche, con blocchi di materia orchestrale che sembravano staccarsi per poi muoversi autonomamente, con eruzioni improvvise di tutti gli ottoni, con filamenti melodici che affioravano nelle grandi fasce orchestrali, con un soprano che alla fine intonava lentamente i versi di una poesia tratta dall’antica raccolta Kokin Wakashū, innesto sorprendete, dall’effetto magico e siderale. Un autentico capolavoro!

Concerti più tradizionali con spettacoli di tipo performativo si alternavano nel progetto Sonic Spaces, una sorta di mini-festival nel festival, ideato dal sassofonista Marcus Weiss, ambientato negli spazi di un ex industria chimica, con performance solistiche, pezzi d’ensemble, improvvisazioni, performance concettuali e multimediali, che chiamavano a raccolta giovani musicisti usciti dalla Hochschule für Musik di Basilea (dei cinque dipartimenti di musica contemporanea: composizione, improvvisazione, elettronica, performance, ricerca), in una prospettiva aperta e transmediale. In una sala da yoga poteva ascoltare Sgorgo Y per chitarra elettrica di Pierluigi Billone, interpretato con grande bravura da Francesco Palmieri, che dava senso musicale a una materia modellata sui cliché della chitarra elettrica e sulle peculiarità dello strumento (la produzione meccanica del suono e la sua elettrificazione), giocata sul ronzio dell’amplificazione, su tumultuose ondate di suono, su rapidi glissati, che producevano un suono sempre instabile. In altre sale si alternavano pezzi per ensemble, ormai dei “classici” del XXI secolo: i Drei Stücke für Ensemble di Mark Andre si ammiravano per l’estrema raffinatezza timrbica, con momenti esplosivi, aloni colorati, zone sospese e rarefatte, ma sempre sostenute da un’ossatura ritmica, che si percepiva solo sottotraccia; Fleisch di Enno Poppe, per sassofono, chitarra elettrica e batteria, “decostruiva” la musica rock fino alle sue molecole, per poi ricomporle in una trama fatta di sonorità acide, di strani temperamenti, di ritmi trascinanti; in modo analogo, Ophelia’s Song di Bernhard Lang (da DW16 Songbook I) ricuciva insieme frammenti di canto pop, tagliati, sminuzzati, strappati, e poi rimontati in percorsi musicali imprevedibili, con break improvvisi, loop graffianti, momenti rap, affidati alla duttilissima voce di Stefanie Knorr.

Molto stimolati le istallazioni sonore e i progetti più sperimentali. Alla Fondazione Beyeler, Peter Conradin Zumthor, noto percussionista svizzero (figlio dell’architetto Peter Zumthor), ha presentato Things are going down, un lavoro per pianoforte e accordatore, dove il suono del pianoforte lentamente si abbassava (con un’idea di metamorfosi “in discesa” simile a quella di Inzenierte Nacht di Simon Steen Andersen), perché l’accordatore allentava gradualmente le corde, e il suono sembrava diventare metallico, poi elettronico, poi puramente percussivo (come una pioggia battente), comunque sempre meno pianistico, generava dei crescendo assordanti, con un effetto ipnotico e avvolgente. Uno spazio immersivo, fatto di suoni quotidiani, era invece quello creato da Dimitri de Perrot in Niemandsland: una forma di teatro che usava il suono come mezzo narrativo, una sorta di «discoteca della vita quotidiana» con tanto di dj chiuso in un box, e il pubblico immerso in uno spazio oscuro animato da pochi bagliori e da un mondo di rumori, riverberi, passi, voci, che si muovevano nello spazio, teatralizzandolo, giocando sull’ambivalenza di situazioni della vita di tutti i giorni, vissute da una prospettiva del tutto diversa.

Molto più deludente, nonostante le molte aspettative, la Poppaea di Michael Hersch, che sarà anche nel programma del prossimo Wien Modern. L’opera intendeva esplorare i tormenti interiori di una donna famosa dell’antica Roma, in un racconto ossessionante sulla ricerca del potere, l’amore, la vendetta, la morte. Ma tutto appariva piuttosto convenzionale: il libretto di Stephanie Fleischmann raccontava la storia in una sequenza di scene piuttosto prevedibili e con dialoghi estenuanti; la regia di Markus Bothe muoveva i personaggi sulla scena con una gestualità molto tradizionale, accompagnando il racconto con un eccesso di elementi didascalici (pupazzi come alter ego dei vari personaggi, liquidi rossi e bianchi per raccontare le scene cruente e i bagni nel latte di asina) – bello però il sipario fatto di bottiglie di plastica che precipitavano sul palcoscenico alludendo all’incendio e alle rovine di Roma; e soprattutto la musica (Ensemble Phoenix diretto da Jürg Henneberger) , sempre spinta a un eccesso di densità e di tensione, che generava presto un effetto di saturazione, con le parti vocali che salmodiavano il testo passando da un’estremità all’altra dei loro registri, spesso con prolungati strilli. Ammirevole, dunque la tenuta delle corde vocali dei tre protagonisti, soprattutto di Ah Young Hong nel ruolo della protagonista.

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Gianluigi Mattietti

Gianluigi Mattietti

Docente di Storia della musica all'Università di Cagliari, autore di saggi e studi sulla musica del Novecento e contemporanea, collabora come critico musicale con le riviste Amadeus, The Classic Voice, Musica, Il Giornale della Musica, Golem informazione, Il Corriere Musicale.

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