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Ultima replica stasera per Leggenda, opera di Alessandro Solbiati co-prodotta da Regio di Torino e il festival Mito. Noi abbiamo assistito alla prima al Carignano di Torino
Assioma: il teatro è azione, anche quello musicale, s’intende, da Monteverdi a Stravinskij: quanto meno, vien da notare, il teatro è principalmente azione. Se azione non c’è… non è teatro, è altra cosa. È quanto sostenevano alcuni, con rigidità fin troppo tranchante, a dire il vero, all’uscita dal settecentesco Teatro Carignano, a Torino, dopo aver assistito alla rappresentazione di Leggenda di Alessandro Solbiati, in prima assoluta: opera in un atto (prologo, quattro scene ed epilogo), co-prodotta da Regio (che l’ha commissionata) e MiTo (20 settembre scorso, con repliche il 24 e ancora il 27).
Poiché parliamo di musica, di lirica, di voci e via dicendo, e non di matematica, gli assiomi – si sa – vanno presi con beneficio di inventario e, soprattutto, non sono affatto vincolanti come nella scienza. Insomma, era per dire che un’opera fondata su un libretto tratto da un episodio dei dostoevskijani «Fratelli Karamazov» (a firma di Solbiati stesso) in cui si disquisisce di libero arbitrio, di coscienza, di tormento esistenziale, di libertà dell’uomo di fronte agli orrori perpetrati dall’umanità, di senso ultimo della vita e della sofferenza, di Rivelazione, di legittima aspirazione alla felicità eccetera eccetera, non presenta certo una ‘storia’ in senso tradizionale, un plot, una trama (magari avvincente e passionale come in tanta letteratura melodrammatica).

La storia per la verità c’è, ambientata a Siviglia, nel XVI secolo, con Cristo e il grande Inquisitore radicalmente e dialetticamente contrapposti, e va dipanandosi alternando momenti lirici (in qualche caso lievemente stagnanti, con tratti talora di inevitabile prolissità) a passi di grande e fin drammatica accensione. Solbiati costruisce, con notevole perizia, una partitura di innegabile bellezza, soprattutto timbrica: a suggestivi momenti, delicati, rarefatti e diafani dall’allure smaccatamente cameristica, a suggerire il senso arcano del mistero che sovrasta l’intera vicenda, succedono per contro tratti di notevole spessore fonico (con ampio uso delle percussioni). Una partitura dove c’è spazio per vari (e intenzionali) riferimenti stilistici: non già vere e proprie citazioni, bensì assonanze ad ensembles di ottoni intrisi di arcaismi di gabrieliana memoria, come pure a schegge di corali, ad evocare la sacralità, ma c’è spazio anche per una fisarmonica (alla Gubajdulina) e altro ancora.

Nel flusso continuo della materia sonora emergono impasti strumentali di innegabile e onirica dolcezza (archi, vibrafono, celesta, oboe, flauto), sui quali si adergono poi blocchi percussivi martellanti ed inesorabili. Così pure quanto alle voci si osserva la contrapposizione di timbri chiari, contrassegnati da esplicito lirismo a simboleggiare innocenza, bontà e purezza (e si trattava per lo più di Alësa, cui dava voce l’ottima Alda Caiello, soprano dalla vocalità nitida e ben timbrata, impegnata in una parte di difficoltà davvero impervia, e della madre, il soprano Laura Catrani) e voci scure: prescelte per dar corpo all’Inquisitore (l’autorevole e possente Urban Malmberg dalla parte costellata di ruvide, fin aggressive asprezze ed una sillabazione tesa, drammatica) ed allo Spirito del Non Essere (il basso Gianluca Buratto). Bene il valido tenore Mark Milhofer nel ruolo del tormentato Ivan e bene anche il sestetto vocale fuori scena, quasi madrigalistico, ed il coro, appollaiato su in alto, come in un quadro fiammingo, ben istruito da Claudio Fenoglio.

Puntuale e precisa la direzione di Gianandrea Noseda, attenta a cesellare ogni minimo particolare della partitura, letta con spirito analitico e pur partecipe, ben assecondato dall’Orchestra del Regio in gran forma, ammirata per la perizia delle sue prime parti nell’affrontare una partitura di soverchia difficoltà. Il lussureggiante aspetto scenico al quale hanno fornito un determinante apporto i mimi (Andrea Baldassari, Stefano Botti, Nicoletta Cabassi, Michele Liuzzi e Sax Nicosia), impressionava positivamente fin dai primi istanti: con Ivan e Alësa biancovestiti, dialoganti dai lati opposti del palcoscenico dove risultavano collocati su due cesti sospesi, come protesi sul mondo. Simboleggiato a sua volta dai mimi, nudi, coreograficamente e tragicamente avviluppati a rendere il senso dell’umanità martoriata (il sangue scorreva copioso, discendendo sui corpi sofferenti, sino ai piedi immersi nell’acqua, corpi talora sferzati da movimenti frenetici, come scariche elettriche). Momenti di grande suggestione con la gabbia puntuta di piranesiana memoria a rendere il senso del carcere e ancora pannelli sul fondo e sui lati con teschi e mani protese ed altro ancora: spettrali e fantasmatici, come in negli incubi pittorici immortalati da Bosch.

A muovere il tutto la regia sapiente, in qualche caso ipertrofica, dell’elegante e a suo modo geniale Stefano Poda, autore anche di scene, costumi e coreografia, nonché light designer. Calligrafismi apprezzabili e sicuramente efficaci, molte idee ancorché, come taluno ha rilevato, talora punteggiati da insistiti e fin troppo compiaciuti estetismi, ma pur sempre coerenti, giù giù sino all’epilogo, col Cristo protagonista (il mimo Tomaso Santinon) ormai solo, nudo e indifeso.
Applausi non entusiasti (ma invero senza alcuna manifestazione di contrarietà) per uno spettacolo di indubbia difficoltà, ancorché di grande impatto emotivo, sia visivo sia musicale: realizzato in memoria di Roberto Bosio scomparso lo scorso anno e lungamente attivo al Regio.