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Interviste • Interprete versato nella musica vocale da camera come nel repertorio operistico, il tenore romano ha avuto grande successo insieme con il pianista Bruno Canino, l’altro ieri a Torino, nella “Schöne Mullerin”
di Attilio Piovano
U n bel successo, lunedì 26 novembre, per il tenore Marcello Nardis, interprete schubertiano di lusso (con un grande musicista come Bruno Canino al pianoforte), sul versante della Schöne Müllerin. Pubblico folto e grandi consensi presso l’Aula Magna “Agnelli” del Politecnico di Torino, per la stagione di Polincontri Classica 2012-2013. Ci siamo intrattenuti lungamente con il colto tenore (laurea in greco antico e archeologia, prossimo ad una laurea in musicologia), attivo sia nella musica vocale da camera sia sui palcoscenici operistici.
La sua è ormai una lunga consuetudine con l’universo liederistico schubertiano. Schöne Müllerin e Winterreise, due capolavori dissimili: in entrambi si può dire che campeggi una figura di Viandante? E ancora: quanto è attuale il messaggio dei due sublimi cicli che si chiudono l’uno con lo sconforto dello sfortunato innamorato l’altro con l’emblematica figura del Leiermann?
«Il principio unitario mi pare l’assoluta centralità dell’io lirico, nel cui carattere itinerante è riconoscibile uno dei vettori più frequentati e fruttuosi della sensibilità romantica. Quanto agli elementi di attualità, direi che l’uomo traghettato al di là del postmoderno resta tributario della grande emancipazione dell’emotività operata tra romanticismo e simbolismo. E in questo senso i due cicli schubertiani sono una sorta di monumentum della nostra essenza più riposta. Il viandante ne è il vero prototipo. In entrambi i cicli è declinata una tangibile drammaturgia dell’io. Nella Schöne Müllerin, l’allegoria del distacco dell’uomo dalla natura ancora porge una speranza di meta al cammino del viandante. È nella Winterreise, dove tutto si compie, che il mondo perde i suoi colori, lasciando luogo al bianco e nero, e si proietta sulla distesa di neve, gelando l’anima del protagonista e dello spettatore nel suo silenzio abbacinante. Una forza cinetica che parte dal primo Lied della Schöne Müllerin. Il viaggio è viaticum, nel vivere tale esperienza nulla è casuale e nella condizione di fugitivus errans si rispecchia il Wanderer prototipico schubertiano di Schöne Müllerin e Winterreise. Alla fine del Viaggio d’inverno, la danza rallenta fino a cessare del tutto sotto il manto oscuro della musica; quel movimento senza sosta alla fine del ciclo si congela, solidificando nel ghiaccio delle dita del Leiermann. Ecco il messaggio, secondo me attualissimo: la crudezza del reale che prende il sopravvento sull’immaginifico».
In Italia – ma molte cose stanno positivamente cambiando – l’universo liederistico è meno seguito di altri ambiti: l’opera, per dire, o il sinfonico o la musica da camera. Al di là di ovvie motivazioni legate alle difficoltà linguistiche, peraltro facilmente aggirabili con testi e traduzioni a fronte, sottotitoli proiettati in tempo reale ecc., quali le ragioni di tale difficoltà di penetrazione nei decenni?
«Curiosamente, in un paese che per secoli ha posto al centro della sua esperienza musicale la voce e la parola, la liederistica non è mai riuscita a imporsi stabilmente nel favore del pubblico. Nemmeno, a ben vedere, nel caso delle romanze nel patrio idioma. Quanti frequentatori di sale da concerto hanno dimestichezza con i Pastori dannunziani nell’incastonatura musicale di Pizzetti? La risposta più fondata, per quanto riguarda il nostro paese, vuole nella liederistica una sorta di vittima dell’opera. Sotto certi aspetti è lo stesso fenomeno che nel segno di Rossini, Bellini, Donizetti e specialmente di Verdi ha relegato per molto tempo ai margini la straordinaria produzione strumentale del Settecento italiano o l’altrettanta straordinaria produzione dei nostri operisti barocchi. Aggiungerei che il Lied agisce sopra una massa critica poetico-testuale molto contenuta, e dunque postula recettori letterari più attenti; né può contare sul concorso di complementi esterni (scenografie, coreografie); queste caratteristiche lo configurano alla fonte come un genere artistico meno immediato. Questo non toglie che tale repertorio abbia la la stessa spettanza di quanta ne abbiano i Quartetti di Beethoven, è solo un fatto di identificazione e di riconoscibilità. E molto possono ancora (e dovrebbero sempre più) i direttori artistici delle società di concerto».
Non è un caso che celebri liederisti del passato e di oggi siano stati e siano grandi artisti di teatro. L’abitudine allo studio dettagliato della parola favorisce la gestione del personaggio anche sul palcoscenico
Un tenore che si accosti al mondo della lirica da camera, e nel contempo come lei avvezzo a calcare anche le scene, quali difficoltà incontra, nella prassi quotidiana, a trascorrere con sufficiente nonchalance tra due mondi così diversi?
«Non parlerei di difficoltà: al contrario, si risente di una utile integrazione. Non è un caso che celebri liederisti del passato e di oggi siano stati e siano grandi artisti di teatro ed ottimi attori. L’abitudine allo studio dettagliato della parola favorisce la gestione del personaggio anche sul palcoscenico, facendo sì che non ci si limiti a concentrare la propria attenzione sulla proiezione della voce, del bel suono, dell’equilibrio con l’orchestra, ma che si dia risalto alla parola come prima cellula espressiva. Il testo è sempre un punto di partenza. Un libretto, al pari di un copione, va conosciuto nell’estremo dettaglio. Un giorno ricevetti da Klaus Maria Brandauer una indicazione registica fin banale per la sua ovvietà: in un testo teatrale, ricercare tutte le indicazioni espresse dagli altri personaggi sul proprio; andare a leggersi quello che gli altri, nei propri interventi, dicono di te. Semplice ed efficace. Se posso permettermi, la regia contemporanea potrebbe in questo senso affrancarsi da un eccesso di ricerca e concentrarsi di più sul testo, anche in termini di semplice struttura drammaturgica».
Dopo un debutto liederistico nientemeno che a Bayreuth, lei è stato di recente interprete wagneriano nel ruolo di Melot in Tristan und Isolde alla Fenice. Ci racconta la sua esperienza?
«Con grande gioia ho colto l’opportunità di cantare questo ruolo che mi ha offerto la possibilità di essere nella pancia di un’opera archetipica. Tristan è un’opera di svolta, fortemente legata a Venezia. Tinte lagunari, il canto dei gondolieri… Meno noto è che anche la vicenda di Tristan è curiosamente e fortemente “veneziana”: dopo la prima vulgata in italiano di Rustichello da Pisa esiste un manoscritto in dialetto locale, datato 1487 e oggi conservato a Vienna, dal titolo Libro de miser Tristan (Il libro di messer Tristano). Strano, ambiguo, il ruolo di Melot: un personaggio negativo, che abbiamo cercato, in uno spazio di azione conciso, di screziare di umane debolezze e legittimi ripensamenti. Melot, di fatto il migliore amico di Tristan, nel libretto ripetutamente nominato da tutti i personaggi… una presenza evocata, un assente presente. Quando irrompe sulla scena si limita a portare a compimento qualcosa che ha già avuto inizio, è un deus ex machina al negativo, che ordisce il tradimento, vittima della sua stessa debolezza, nei confronti del vincente Tristan»
Bach pare abbia più d’una volta stupito i suoi contemporanei suonando il violino e nel contempo realizzando il basso col pedale dell’organo. Lei, a quanto pare, fa di meglio, interpretando il repertorio liederistico e addirittura accompagnandosi al pianoforte. Come è possibile mantenere la concentrazione nel contempo… sul diaframma e sulla punta delle dita? È pur vero che anche Schubert, come lei ricordava in altra intervista, spesso si accompagnava cantando egli stesso.
«Una pratica che ho riscoperto recentemente e che, vedo, sortisce grande appeal sul pubblico. Richiede concentrazione massima e completa autonomia di tutte le parti. Vivo sempre l’occasione con senso della estemporaneità, proprio per restituire immediatezza all’ascoltatore: talvolta sono più concentrato sulla parte vocale, se il pianoforte risponde bene, altre volte accade il contrario. Dipende. Questa pratica di simultaneità implica alcuni accorgimenti. Seggiolino ad una determinata altezza per mantenere il busto eretto, ricerca della posizione migliore del pianista/cantante, di tre quarti rivolto al pubblico, per favorire l’emissione. Una situazione che piace per la sorpresa ed anche perché rimanda ad una dimensione “cantautorale” a cui il pubblico di oggi è comunque abituato».
Quale grande cantante del passato vorrebbe riportare in vita per domandargli il suo segreto?
«Mi piacerebbe approfondire la vocalità di Pierre Jelyotte e gli chiederei lumi sull’affascinante passaggio dalla haute-contre pura alla vocalità del tenore “moderno”, quello che si è consolidato, subito dopo, con la tecnica di Nourrit e Duprez».
Progetti futuri?
«Subito in gennaio la Carnegie Hall: una meravigliosa opportunità. Parteciperò alla rassegna The Song continues, una specie di full immersion dedicata al Lied, con Jessye Norman, Marilyn Horne, Dalton Baldwin. Un grande onore per me».
La soddisfazione più grande della sua carriera finora?
«Molte. La più recente quando, alla fine del concerto a Bayreuth, Verena Wagner, la 91enne nipote del compositore, si è avvicinata dicendomi in un perfetto italiano che il mio modo di cantare le aveva “toccato l’alma”».
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minchia!
Complimenti, magnifica intervista! LRdB