Al Comunale torna, tra ovazioni, il capolavoro rossiniano con la direzione di Mariotti, la regìa di Vick e una compagnia di canto quasi del tutto ripensata rispetto al ROF 2013: la dominano Álvarez, Spyres e la Auyanet
di Francesco Lora
UN’OVAZIONE LUNGA LUNGA GIÀ AL TERMINE DELL’OUVERTURE: il pubblico del Teatro Comunale di Bologna, persino quello freddo e distratto della “prima” dell’8 ottobre, ha accolto così il ritorno del Guillaume Tell di Rossini e, nel contempo, l’annunciata nomina di Michele Mariotti a Direttore musicale del teatro. Ininterrottamente presente dal 2007 nelle stagioni del Comunale, il giovane direttore merita quel ruolo quant’altri mai: ha dato sale a cartelloni con ampi margini di casualità, è amato dal pubblico e lo è altrettanto dall’orchestra e dal coro residenti. In questo Guillaume Tell si è tolto dal cappello una vera e propria tesi di dottorato: sotto la sua bacchetta tutto è canto, ogni battuta è flessa in un fraseggio vivo, l’espressione è elegante senza artefazione, le scene d’assieme sono tenute poderosamente in pugno, gli assoli strumentali sono fatti brillare, i cantanti sono sorretti con amorevolezza, orchestra e coro lavorano con un entusiasmo impagabile. Se ottima era stata la lettura dello scorso anno al Rossini Opera Festival di Pesaro, quella attuale mostra un grado superiore di rifinitezza e dedizione (anche a costo di tre tagli interni a numeri musicali, per le solite esigenze di tempistica sindacale e – tra le righe – per concedere attimi di tregua all’oberatissimo primo tenore).
Anche l’allestimento scenico è il medesimo del ROF 2013, là pensato per la sterminata Adriatic Arena e qui costretto in un più breve boccascena. Le scene di Paul Brown, autore anche dei costumi, ne escono un po’ soffocate, ma la regìa di Graham Vick ne guadagna in restituzione dei dettagli e dunque in fruttuosa intelligibilità. Si ritrova una visione teatrale di puro genio, ossia uno studio sulla dialettica della sopraffazione e della liberazione, dove il delegato Lorenzo Nencini riprende la regìa al millimetro, e dove le coreografie di Ron Howell fanno ancora saltare sulla poltrona per audace parata di significati: a Pesaro erano state sepolte di fischi, a Bologna sono portate in trionfo. Quanto al resoconto drammaturgico punto per punto, questo è uno spettacolo già visto e documentato in molte recensioni, compiuto nell’idea senza bisogno di ripensamenti o adattamenti, da vedere e rivedere in teatro nonché presto fissato in DVD: appartiene già alla storia, e recare nuovi appunti critici equivarrebbe a portare vasi a Samo.
Quasi del tutto ripensata è invece la compagnia di canto, e spesso e sorprendentemente in senso migliorativo. Carlos Álvarez, tornato alle scene dopo un periodo di riposo, trova in quella di Guillaume Tell una parte d’elezione: calzano come un guanto il colore scuro, la tessitura gravitante sul centro, il modo nobile e insieme schietto; non v’è bisogno di molte altre parole: il cantante e il personaggio coincidono e si rivelano a vicenda. Degno di più ampio inquadramento è invece Michael Spyres nella micidiale parte di Arnold: raro caso di tenore baritonaleggiante, con stratosferica quotazione sul mercato delle voci rossiniane, da lui ci si aspetterebbe un’esecuzione alla Gilbert-Louis Duprez, eroica e a voce piena, fino all’ostentazione del Do di petto al termine della cabaletta; al contrario, egli reinventa per l’occasione la propria vocalità, candidandosi a filologico epigono di Adolphe Nourrit, l’haute-contre (il tenore acutissimo della tradizione francese) per il quale la parte fu concepita: registro misto che si assottiglia ai limiti del falsetto con l’ascesa verso il registro sopracuto, e che tuttavia conserva e raddoppia la virilità tramite la studiata enfasi dell’accento. Manco a dirlo, in questo orizzonte il temibile cimento è espugnato con tanta relativa facilità quanta autenticità stilistica, e si scopre quanto inutile sia quel celebre Do acutissimo che chiama «aux armes»: risuona come un sopracuto tra i tanti, solo meno integrato nel discorso rossiniano declinato alla francese, che nei cieli del pentagramma cerca soavità e brillantezza anziché materica esibizione di muscoli.
La maggior sorpresa della compagnia è Yolanda Auyanet, solida professionista da tempo tra le prime scelte di Mariotti, la quale giunge a superare sé stessa proprio al momento dell’esordio più gravoso: la sua Mathilde è rimarchevole per omogeneità e ricchezza timbrica, per lirismo d’espressione e finezza di fraseggio, per generosa risonanza e per lunghezza di fiati; non è una virtuosa a tutto tondo come la Marina Rebeka di Pesaro, ma lascia nella mente un ricordo più trascinante e un esempio più autorevole. Segue una rassegna di parti di fianco e rispettivi interpreti da lasciare di stucco. Ci sono cantanti di chiara fama, forse maggiori del ruolo a loro toccato: Simon Orfila come estroverso Walter Furst, Simone Alberghini come pacato Melcthal ed Enkelejda Shkosa come affettuosa Hedwige. Ci sono giovani cantanti tra le massime promesse del momento: Mariangela Sicilia come guizzante Jemmy e Giorgio Misseri come squillante Ruodi. E ci sono caratteristi tra i più affidabili oggi alle scene: Luca Tittoto come istrionico Gesler, Alessandro Luciano come insinuante Rodolphe, Marco Filippo Romano come animoso Leuthold e come Cacciatore. Il miglior spettacolo della corrente stagione bolognese, oltre che uno tra i più insigni del cartellone internazionale.
D’accordissimo!!!