di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
Concerto davvero memorabile per Lingotto Musica, quello tenuto dalla Gürzenich-Orchester Köln per la prima volta a Torino. Soprattutto è stata un’emozione grandissima ascoltare il Mahler davvero sensazionale del direttore François-Xavier Roth, un vero fuoriclasse.
Roth ha di recente inciso la mahleriana Quinta per Harmonia Mundi, piatto forte della serata al Lingotto di mercoledì 13 febbraio 2019, e proprio in questi giorni – avvertono ufficio stampa ed organizzatori della Gürzenich – è in uscita la ‘sua’ Terza (ça va sans dire, ancora di Mahler). Un Mahler il suo davvero speciale: e dire che ultimamente si sono ascoltate molte edizioni, sia live sia discografiche della Quinta, per così dire di routine, o quantomeno non così ponderate, ‘pensate’ e calibrate; una lettura molto novecentesca quella di Roth che, potendo contare su una compagine di straordinaria bravura e coesione, punta opportunamente sui timbri puri e non sull’amalgama, un direttore che ha finalmente compreso che Mahler è un uomo del ‘900 e non un tardo romantico, non un epigono wagnerian-bruckneriano.
Che si sarebbe trattato di un concerto memorabile lo si è compreso fin dall’attacco della Trauermarsch affrontata con estrema virilità, asciuttezza e senza quegli indugi, quelle smancerie artefatte (e talora affettate) che invece caratterizzano altre esecuzioni. Ma per una volta contravvenendo alle buone regole della critica musicale, sia concesso riferire innanzitutto del bis, un bis per così dire a tesi che ci ha sorpreso piacevolmente in modo indicibile. S’è trattato dell’Adagietto dalla suite dell’Arlesienne di Bizet, semi-sconosciuto ai più, pagina che chi scrive queste note frequenta ed ama invece in maniera sperticata; brano – sia permesso rimarcarlo – che presenta una singolarissima e incredibile assonanza con l’Adagietto mahleriano: stessa curva melodica, stessa tonalità di fa maggiore, stesso organico di soli archi (manca soltanto l’arpa), una somiglianza davvero incredibile, e vien da pensare legittimamente che Mahler, quando concepì il ‘suo’ Adagietto poi racchiuso entro la Quinta Sinfonia, lo dovesse aver ben presente. Di certo – così risulterebbe – lo aveva diretto, almeno un paio di volte. Sta di fatto che all’ascolto si prova questa sensazione: è come se con la pagina dall’Arlesiana di Bizet ci si trovasse dinanzi ad una sorta di bozzetto di piccole dimensioni, laddove Mahler ne fece, per così dire, un olio di vaste proporzioni.
Beninteso, non si tratta di stabilire certo chi-ha-copiato-che-cosa, non è questo il punto. Si tratta semplicemente di constatare una somiglianza sorprendentemente incredibile, questo sì, tanto più prodigiosa dacché gli universi stilistico-espressivi di Bizet e Mahler appaiono se non proprio agli antipodi, certo lontani mille miglia. Roth ha annunciato il bis, ma senza dirne titolo ed autore, dichiarando invece la propria gioia per essere con la ‘sua’ orchestra per la prima volta a Torino, e dedicando il bis stesso a James Conlon, attuale direttore stabile dell’OSNRai, presente in sala. Un bis che Roth, val la spesa di sottolinearlo, ha eseguito in maniera molto mahleriana, accentuando ancor più la palese affinità tra le due pagine.
Ed ora la Quinta, per l’appunto. Grandi emozioni nel tempestoso secondo pannello della prima parte, dalle indicibili turbolenze, affrontato con decisione e sicurezza, addirittura con una certa dose di ammirevole spavalderia, lasciando stupefatti, ancora una volta, per il taglio interpretativo smaccatamente novecentesco. Ed ora lo Scherzo. Sublime la capacità di Roth nel far collidere il tema leggermente smagato e quasi umoristico con quegli umori corrosivi che Mahler insinua in abbondanza. Strepitosa la parte centrale, con quei pizzicati rarefatti, come straniti e diafani, quasi fantasmatici che hanno lasciato stupiti per bellezza e intensità, innescando grandi emozioni. E poi ecco riemergere il tema di valzer, alla fine come dal nulla e prendere quota con una naturalezza incredibile.
Quanto all’Adagietto, vero clou espressivo dell’intera Sinfonia, Roth lo ha affrontato in maniera estenuata, ma asciutta al tempo stesso: lo ha come prosciugato da tutti quegli orpelli e da quegli eccessi che avevano finito per depositarsi come inutili incrostazioni sulla pagina stessa. Bellissima la curva espressiva creata da Roth che nella parte conclusiva del sublime Adagietto pareva distillare le note ad una ad una, tenendo tutti col fiato sospeso.
Poi ecco il vasto Finale affrontato senza indugi. Inizialmente lasciava un poco perplessi, lo avremmo voluto forse un po’ più aggressivo, meno educato, più incisivo. Ma poi ecco farsi avanti quelle atmosfere grottesche che ne costituiscono il pigmento essenziale: e si sa quanto in Mahler la categoria del grottesco rivesta un ruolo di essenziale rilevanza. Da ultimo il trionfante epilogo; una lettura anche in questo caso molto novecentesca, attenta a far emergere i timbri di un’orchestra che sfodera ottime prime parti, gli ottoni soprattutto e gli archi; qualche piccola défaillance nei legni, ma è una peccato assolutamente veniale, tale da non sminuire l’elevatezza di una performance della quale conserveremo a lungo memoria
Prima parte di serata nel segno di Mendelssohn, ovvero del sublime Concerto per violino op. 64 affidato alle mani preziose di Isabelle Faust, violinista somma dotata di una tecnica pur sempre di altissimo livello, anche se ora non più del tutto impeccabile; qua e là nel primo tempo piccole imperfezioni di intonazione, non sempre è tutto ‘in asse’, forse è mancato il tempo per prove accurate. In realtà sono piccole cose che non hanno certo inficiato la validità di una interpretazione di altissimo livello; anche nella cadenza a dire il vero non tutto era a posto e il finale stentava un poco a ‘decollare’. Isabelle Faust continua a mantenere beninteso un magnetismo assolutamente indicibile e, non a caso, ha affascinato il pubblico con la sua interpretazione. Il Concerto di Mendelssohn del resto è sempre un vero e proprio evergreen. E allora difficile rimanere impassibili di fronte al tono mercuriale del Finale dalla caratteristica leggerezza, come un gioco di folletti, quasi memori dello shakespeareano Puck. Anche in questo caso molto bene l’orchestra e la direzione di Roth che ha saputo trovare i giusti climi ed una passabile intesa con la solista. Flessuosità e morbidezza di suono le si sono ammirate già in questa prima parte di serata. Isabelle Faust al pubblico festante che la osannava ha regalato ancora un grazioso bis con la quale si è congedata sorridendo. Applausi vivissimi per tutti, alla fine della prima parte, e soprattutto in chiusura di serata con l’inatteso Bizet di cui si è detto lungamente, che ha lasciato molti sorpresi e alcuni – come chi scrive queste note – meravigliati e affascinati all’inverosimile.