di Luca Chierici foto © Hiroyuki Ito
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, tra i pianisti più interessanti che si potevano ascoltare in sala da concerto vi erano sicuramente Ivo Pogorelich, nato nel 1958 e Krystian Zimerman, del ’56. Di carattere non proprio simile, questi due artisti avevano in comune una preparazione solidissima e una musicalità di altissimo livello, fattori che rendevano estremamente godibili le serate a base di Beethoven, Schumann, Chopin e altri autori da loro presentati in seno a programmi sempre molto interessanti.
Nello stesso periodo si potevano come è noto ascoltare i grandi campioni delle generazioni precedenti, sopravvissuti quasi tutti in ottima forma artistica alle magagne dell’età e ai cambiamenti del gusto. Inutile enumerarli, ma se ci riferiamo come esempio al solo triennio 1983-86, ci si faceva una vera e propria cultura sull’interpretazione pianistica seguendo (nell’intorno di un paio di centinaia di chilometri da Milano) un calendario di eventi da capogiro, con attori che, oltre ai tre nomi già citati, includevano Arrau, Bolet, Brendel, Cherkassky, Cziffra, Gulda, Horowitz, Magaloff, Michelangeli, Richter e Serkin.
Parallelamente era logico seguire con grande attenzione i campioni della generazione degli anni Quaranta, tra i quali spiccavano Ashkenazy, Lupu e Pollini. Perché questo elenco cronologicamente eterogeneo? Perché tra i pianisti che avevano già una certa età si ascoltava una selezione naturale di individui che avevano superato brillantemente sia le insidie della vita che quelle dell’arte, ossia artisti che avevano avuto la fortuna di essere ancora in ottima forma e di poter incantare il pubblico attraverso un messaggio che non solo non era passato di moda, ma che addirittura di moda tornava forzatamente dopo la parentesi “modernista” del milieux culturale negli anni Sessanta e Settanta. E perché tra i pianisti relativamente più giovani si iniziava ad osservare una certa trasformazione del gusto e del modo stesso di porsi di fronte al pubblico. Già, l’invecchiamento degli artisti: un fattore inevitabile che portava a una selezione naturale ma che permetteva l’ascolto di contenuti indimenticabili, di suoni affascinanti, di fraseggi che evocavano i miracoli del belcantismo. Ma come sono poi invecchiati i pianisti che allora erano sulla quarantina? Non molto bene, in alcuni casi, e non certo come erano riusciti ad invecchiare tutti i nomi cui abbiamo appena accennato (I quasi nonagenari Rubinstein e Kempff, allo stesso modo, si erano potuti ascoltare in ottima forma fino a non molti anni prima).
Ma torniamo ai due nostri primi campioni e applichiamo anche a loro il “test di sopravvivenza”. Pogorelich, oggi sessantunenne, si è perso dopo la fine degli anni Novanta in un tunnel depressivo dal quale finora non è più rinato, continuando a centellinare il repertorio d’un tempo dilatando sempre più le durate di esecuzione di lavori che in precedenza aveva presentato con successo. Zimerman suona ancora oggi con la carica di trenta e più anni fa e lo ha dimostrato l’altra a sera al LAC di Lugano con un recital dove gli applausi da parte di un pubblico entusiasta certo non sono mancati. In un primo momento sembrava che certe perdite di controllo emotivo, certe eccessive sollecitazioni del discorso, a volte la mancanza di un aplomb più consono alla lettura dei classici avessero minato una precedente maggiore compostezza. Ma – e qui si capisce come le registrazioni dal vivo risultino utilissime per un giudizio critico – ad un esame al microscopio queste stesse caratteristiche si sono ritrovate tali e quali anche nelle esecuzioni di trent’anni fa, cosa che ci faceva meditare sul fatto che la memoria dell’ascoltatore è spesso fallace.
Di Zimerman si sono (ancora) ammirati il suono sempre bello, pieno, con una accordatura affascinante dei bassi del suo pianoforte che conferiva ancora più profondità a un tocco magistrale e sfruttava in maniera ottimale una predisposizione fisica (corporatura brevilinea, mano ideale) che permette al grande pianista di trarre suoni straordinari dalla tastiera. E la perentorietà del gesto, la descrizione della frase quasi sempre in linea con la tradizione gloriosa e allo stesso tempo sollecitata da una musicalità naturale straordinaria. Zimerman si fa perdonare qualche eccesso – qui sta la forte componente artistica del suo ruolo – contagiando l’ascoltatore con una dose di entusiasmo per nulla artefatto, sempre molto spontaneo. Come siamo lontani dagli atteggiamenti costruiti di tanti colleghi più giovani !
La visione eroica del Brahms di Zimerman era ben nota agli appassionati fin dai tempi delle incisioni DG di tanti anni fa, e la si era verificata anche attraverso alcune riprese dal vivo e ricordi personali (memorabile la seconda sonata, eseguita alla Società del Quartetto di Milano nel lontano 1977). A Lugano il miracolo si è ripetuto, con il valore aggiunto del “live”, e d’ora in avanti collocheremo questa esecuzione della terza sonata nel nostro santuario personale, accanto a una altrettanto superba ancora di Zimerman avvenuta una ventina d’anni fa al Teatro Dal Verme e a una ancora più remota di Rubinstein alla Scala (1974). Dei quattro Scherzi di Chopin, presentati finalmente senza applicare il noioso rito della esecuzione senza soluzione di continuità (e come si sarebbero potuti evitare gli applausi al termine di ciascuno di essi ?) rimane il ricordo di un pianismo strepitoso, di un risultato tecnicamente ottenuto senza alcuno sforzo, a volte fin troppo facilmente come è il caso della Argerich, e di una visione del conterraneo musicista forse meno seriosa e controllata di quanto la tradizione abbia voluto tramandare. Pubblico letteralmente soggiogato, applausi interminabili, felicità e serenità conclusiva anche senza la soddisfazione dei bis, inutilmente richiesti nonostante l’evidente diniego dell’artista.