I grandi interpreti al Bologna Festival danno lezione d’indagine minuziosa e strapotere tecnico: da Beethoven a Weinberg
di Francesco Lora
AL SUO SECONDO APPUNTAMENTO, il Bologna Festival cala una coppia d’assi che vale il poker intero. Il 26 marzo nel Teatro Manzoni abbiamo ascoltato il pianoforte di Martha Argerich e il violino di Gidon Kremer. Un programma teso sull’arco di due secoli, dalla Sonata in Sol maggiore op. 30 n. 3 di Ludwig van Beethoven e dalla Sonata in La maggiore di César Franck, sino alla Sonata n. 5 op. 53 e alla Sonata n. 3 op. 126 di Mieczysław Weinberg, autore contemporaneo bisognoso di qualche presentazione in più e con un mentore entusiasta in Kremer stesso. Ed ecco i soliti segni distintivi dei grandi musicisti, resi tanto più manifesti e autentici per il loro aumentare nella collaborazione l’uno coll’altro.
V’è l’eloquio schietto e rotondo della Argerich, poderoso nella caduta della mano sulla tastiera e sempre energico nell’articolazione, col consueto prodigio di rapidità e nitidezza delle ottave; qualche prudenza nel primo dei due Weinberg, terreno innanzitutto kremeriano cui la pianista si concede per curiosità; franchezza e strapotere in Beethoven; riposo nel secondo Weinberg, partitura per violino solo; gioco inesausto di rubato in Franck, dove però l’increspatura è quella dell’onda possente. Accanto v’è la sottigliezza da orefice colla quale, in fatto di trascolorare timbrico, dinamico e retorico, Kremer indaga ciascuno degli autori, fino alla seconda sonata weinberghiana che è di fatto un’enciclopedia delle risorse tecniche applicabili al violino. Il virtuoso lèttone potrebbe ostentare, in sé compiute, tante calligrafie quante gliene balenino per un istante in capo.
Eppure, sia in lui sia nella Argerich, tutto risponde a un istinto, a una professione e a una volontà di naturalezza che molto e tutto sa dire anche senza lambire il paravento e l’esteriorità dell’artificio. Ciò ha luogo a tal punto che l’aggiunta d’aggettivi in recensione sembra tradire essa stessa il programma di semplicità dei due artisti, così squisitamente musicale da ribellarsi alla traduzione verbale. Quella che potrebbe essere la pomposa orazione e contesa di due sovrani dello strumento diviene, in tal modo, la conversazione di due anime grandi fatte amiche, coi loro tratti di riserbo, ironia, incoraggiamento reciproco, gioco, euforica stratificazione di voci o concessione di squarci monologici (quanti se ne aprono, in Franck!). Festa dell’uditorio fino all’ultimo dei tre encore, e poi ancora in strada attendendo l’uscita degli artisti.