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Recensione • Tre concerti all’insegna di Robert Schumann quelli iniziati sabato 17 novembre all’Auditorium Parco della Musica (stasera ultima replica). Protagonisti la pianista argentina e l’Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Sul podio “Sir Anthony”
di Mario Leone
A d aprire la serata il Nachtlied op. 108 per coro e orchestra. Composto nel 1849 su testo di Friederich Hebbel riscosse, alla première, un grande successo e lo stesso Schumann la definì «opera che mi è particolarmente cara». Il Coro dell’Accademia diretto da Ciro Visco conferma l’elevato livello raggiunto in questi anni. Ottima intonazione, grande varietà di dinamiche, ottima dizione. Pappano opta per un inizio molto sommesso che via via cresce sia dal punto di vista dinamico che agogico, raggiungendo l’acme sulle parole del coro Herz in der Brust wird beengt (il cuore si stringe nel petto). Dopo di che la musica inizia a ritrarsi sino a diventare un sussurro ben declamato dal coro: “Schlaf” (sonno) e “Kreis” (cerchio) chiudono un brano di brevi dimensioni ma che racchiude un caleidoscopio di atmosfere.
Pappano asseconda la Argerich nel fraseggio, nelle dinamiche e in qualsiasi proposta, offrendo un’interpretazione che illumina ogni aspetto della partitura
A seguire è stata la volta del concerto in la minore per pianoforte e orchestra op. 54. Nel maggio del 2000 il noto critico e musicologo Sergio Sablich scrisse di Martha Argerich in questi termini: “Che cos’è che rende unico il modo di suonare della Argerich? Non tanto o soltanto la tecnica scintillante e il tocco spaziale, ma essenzialmente quell’essere un misto di erotismo e spiritualità, di istinto e cerebralismo, di innocenza e malizia, ossia una miscela di opposti ridotta a ordine”. Mai parole furono più appropriata per una pianista che dodici anni dopo, se Sablich fosse ancora vivo, forse descriverebbe nello stesso modo, con il suo mostruoso talento e le sue molteplici sfaccettature, una maturità e un desiderio continuo di approfondimento che suscita ammirazione continua. La stessa con la quale ha assistito al recital il pubblico che gremiva ogni angolo dell’Auditorium romano. Schumann stesso, in una lettera a Clara Wieck datata 1839, descriveva così il concerto: “Quanto al concerto, ti ho già detto che si tratta di un che di mezzo fra sinfonia, concerto e grande sonata. Mi rendo conto che non posso scrivere un concerto da ‘virtuoso’ e che devo mirare a qualcos’altro”. Ecco, l’intento del Compositore è di creare un’opera che superi e trascenda tutte le caratteristiche della tradizione classica. Ne viene fuori un lavoro monumentale che è molto più di una Sinfonia e di un Concerto.
A suo agio nella scrittura schumaniana, avvezza alle insidie e alla grande densità della partitura, la Argerich dona un’interpretazione brillante nelle parti più virtuosistiche e intima e riflessiva nei passaggi di maggiore liricità, grazie alla quale viene fuori la luce dello Schumann più estroverso e luminoso di tutta la sua produzione pianistica. Bellissimo il dialogo tra pianoforte e orchestra in un continuo gioco di scambio delle parti dove il pianoforte, nel primo movimento, si mette al servizio dell’oboe, del clarinetto e del fagotto, e nel secondo movimento riesce quasi a ecclissarsi per dar spazio al canto spiegato dei violoncelli. Intesa perfetta tra direttore e pianista, diremmo innata. Pappano asseconda la Argerich nel fraseggio, nelle dinamiche e in qualsiasi proposta, offrendo un’interpretazione che illumina ogni aspetto della partitura. Nessun momento di appannamento, idee musicali sempre chiare e una lettura della partitura minuziosa, che rimane intatta anche nell’ultimo movimento (il più complesso dal punto di vista tecnico rispetto ai due precedenti) nel quale è proposta la rielaborazione di tutto il materiale esposto, una summa di tutte le difficoltà tecniche, anche quelle “inventate” dallo stesso Schumann, che nel finale sfociano in veri e propri passi “di bravura”. Il finale è un’ovazione “da stadio” del pubblico e anche dell’orchestra e la Argerich che si siede nuovamente al pianoforte eseguendo come bis la prima delle Kindersezenen op. 15.
La seconda parte del concerto ha visto l’esecuzione della Sinfonia n. 2. Nata con non poche difficoltà e soprattutto coincidendo con il serio manifestarsi dei primi segni della malattia mentale, rinvenibili forse in una scrittura molto frammentata, la Sinfonia è eseguita per la prima volta nel 1846 diretta dall’amico Felix Mendelsshon. In una lettera del 2 aprile 1849 al direttore musicale di Amburgo, Georg Dietrich Otten, Schumann confida: “Ho scritto la Sinfonia in do maggiore nel dicembre 1845, mentre ero ancora mezzo malato, ho l’impressione che questo si avverta”. Costruita in quattro movimenti l’opera in alcuni inflessioni preannuncia il Brahms sinfonico. Un vero e proprio testamento spirituale nel quale è rinvenibile, anche nella costruzione tematica, le influenze delle sinfonie di Schubert o anche del tardo Beethoven, in un magistrale gioco di citazioni e rinvii. Ancora ottima la prova dell’Orchestra che mantiene alta in tutta l’esecuzione la tensione sonora e la vivacità ritmica, in una interpretazione sempre chiara anche nelle pagine dove la polifonia delle parti e la tipica “frammentazione” della scrittura schumanniana si fanno più intricate. Pappano stupisce per la sua capacità di empatia con l’orchestra e per la chiarezza delle idee musicali. Un grande direttore che sta raggiungendo vette di eccellenza con la semplicità e l’amore totale alla musica, che solo i “grandi” hanno.
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Il concerto di Schumann è op. 54, non 58. Correggete please.