di Monika Prusak foto © Rosellina Garbo
METTERE IN SCENA Attila di Verdi subito dopo l’ultima giornata de L’anello del Nibelungo di Wagner è una scelta coraggiosa, che avvicina opere di due compositori immortali messi sempre a confronto. Ciò nonostante non si può parlare né di vincitori né di perdenti: Attila proposta dal Teatro Massimo di Palermo si difende fortemente per l’originalità della partitura, che la direzione di Daniel Oren ha impreziosito con una grande efficacia scenica. La scorrevolezza della musica e l’atmosfera sonora e ambientale ricercata e ricreata dal direttore israeliano, hanno velato persino la regìa volutamente statica di Daniele Abbado e un’elaborazione particolarmente cupa delle scene e dei costumi di Gianni Carluccio e Daniela Cernigliaro. Un altro punto forte di questa co-produzione con il Teatro Comunale di Bologna e con il Teatro La Fenice di Venezia, è il cast di cantanti di fama internazionale, che tuttavia rimangono vincolati dall’immobilità dell’azione.
Tra gli interpreti una delle star più importanti dell’odierna scena operistica, il basso-baritono uruguaiano Erwin Schrott che, con la sua voce grave e l’impeccabile impostazione tecnica, è un Attila che convince e trascina. Al suo fianco il soprano bulgaro Svetla Vassileva in Odabella, padrona coscienziosa del palcoscenico dotata di una voce ricca e suadente. Tuttavia la cantante forza le parti più dinamiche e di conseguenza non riesce a equilibrare perfettamente i piano, rendendo la sua interpretazione meno lineare dal punto di vista vocale. Incanta Foresto interpretato dal tenore Fabio Sartori che dispone di una voce elegante e lirica. Una nota va a Antonio Di Matteo in Leone, mentre non convincono il baritono Simone Piazzola e il tenore Antonello Ceron, rispettivamente in Ezio e Uldino. Il coro ha numerosi momenti positivi, soprattutto quando figura al maschile; l’orchestra viene trascinata con successo dal maestro Oren, presentando una abilità notevole nel seguire una bacchetta ferma ed esigente. Il risultato dell’insieme è positivo, per cui l’unica riflessione che rimane è quella sul bisogno eventuale di affrancare di tanto in tanto la partitura verdiana dalla gestualità scenica tradizionale e semmai donarle un soffio di freschezza per avvicinarla ai nostri tempi e lasciare ai cantanti più libertà di interpretazione.