La più popolare tra le opere di Rossini è tornata al Teatro Comunale in un allestimento di compromesso tra austerità e idea teatrale e musicale: nelle due compagnie si distinguono Bordogna, Lupinacci, Prato, Romano e Tittoto
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
Nella corrente stagione d’opera del Teatro Comunale di Bologna, vistosa è la spaccatura tra il paio di spettacoli diretti da Michele Mariotti, dove non manca lo scialo per i grandi nomi (D’Arcangelo nell’Attila, Flórez nel Werther), e la piccola costellazione degli altri, spesso nemmeno titoli d’opera in senso proprio, dove all’origine di tutto sono la scelta del titolo popolare e la consegna della massima economia. Lo si è visto nella Carmen di marzo: una recensione fortemente negativa, scritta nello stupore di un simile tonfo artistico in una tra le prime fondazioni liriche italiane, è rimasta per compassione, non pubblicata, nell’archivio della Testata. L’informazione riprende dal Barbiere di Siviglia andato in scena per nove serrate recite dal 5 al 15 maggio: uno spettacolo anch’esso limitato dalla scarsezza di mezzi, dalla strettezza di tempi e dalla casualità di ingaggi, ma utile per far tastare il polso al melomane itinerante e per dare conto di qualche nuova leva rossiniana.
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Frammentario lo spettacolo con regìa di Francesco Micheli: un pannello di tubi luminosi che acceca la platea, scena per il resto desolatamente spoglia, lavoro con gli attori demandato agli stessi, drammaturgia risolta con una galleria di citazioni – di per sé non sollecitate da poesia e musica – dove lo spettatore medio dovrebbe individuare personaggi o film non sempre così celebri. Nel firmare scene e nelle luci, Nicolas Bovey fa il gioco del regista e può contare sull’oblio. Al contrario, Gianluca Falaschi si riconferma virtuoso di arte sartoriale e di caratterizzazione mediante l’abito: la collezione di costumi da lui creata, e in particolare il confettoso guardaroba di Rosina o quello di Bartolo tutto impresso a occhi d’Argo, meriterebbe le sale di un museo. Rispetto a un discorso teatrale malriuscito ma prepotente, antitetica è la concertazione di Carlo Tenan: attenta, impegnata, sempre dentro il testo, ma anche piuttosto timida e avara di sferzate ritmiche o vividezza timbrica.
Due le compagnie di canto, e degne entrambe di essere ascoltate poiché in compenetrazione reciproca. Con una premessa: questo non è Il barbiere di Siviglia che la renaissance rossiniana ha rimesso a nuovo fin dagli scorsi anni ’80, ovviando agli scempi di una tradizione al ribasso strutturale e stilistico, bensì proprio quello secondo corruzione, con tanto di rondò del Conte d’Almaviva – vale a dire il culmine dell’atto II e forse dell’opera tutta – falciato via come se nulla fosse. Delude così il Conte di René Barbera, fresco d’esordio allo scorso ROF di Pesaro, non erudito come belcantista – acuti tenuti a perdifiato, anche fuori luogo, e coloratura poco fluida – nonché freddo nell’espressione. Gli si preferisce il Conte di Alessandro Luciano, meno dotato nei mezzi vocali ma almeno giocoso, simpatico e disinvolto, come si intendeva un tempo il personaggio a sbrigativo risarcimento della grande aria perduta.
La superiorità della seconda compagnia vale qui ogniqualvolta un interprete non italiano debba vedersela con un madrelingua. Aya Wakizono, come Rosina, è un mezzosoprano che cerca affondi da baritono nel registro grave e che nel registro acuto insegue spessore e vezzi da soprano leggero: caratteristiche già proprie di molte colleghe nonché da una creatrice rossiniana come Rosmunda Pisaroni, ma qui tediose poiché non tanto insite nella natura vocale quanto perseguite a bella posta per emulazione. Julian Kim, come Figaro, è invece un baritono con il proprio punto di riferimento nel Verdi rifritto in salsa verista: il suo interesse alla parte del barbiere non può dunque essere rossiniano a tutto tondo, ma è mera concessione a un ruolo celebre, frainteso, bistrattato, sottovalutato. Un argomento accomuna Wakizono e Kim: il birignao innaturale e buffonesco sovrapposto a una parola non ben compresa, mentre inespugnabile rimane per loro la parola sfumata dall’interno.
Dell’ultima cosa detta sono maestri la Rosina e il Figaro della seconda compagnia. Senza un’ombra di affettazione, senza un cenno di esagerazione, senza mai dover indulgere a lazzi, frizzi e ammicchi, Raffaella Lupinacci e Vittorio Prato porgono canto e parola con una varietà espressiva, una scioltezza retorica e una naturalezza espositiva tipiche non solo di chi possieda il testo particolare e il genere teatrale, ma anche di chi non sappia prescindere dalla viva collaborazione scenica con ciascun collega. Non servirebbe precisare come il loro duetto «Dunque io son… tu non m’inganni?» dia la principale ragione di godere dello spettacolo. Né le loro doti vocali sono da meno: confermano da una parte uno tra i più sani, dotati, rifiniti e assennati mezzisoprani emergenti, con una calda omogeneità di timbro lungo la gamma, dall’altra un baritono che è il paradigma stesso del brillante, del giovanile e dello svettante, mai impensierito dall’ascesa ai La acuti.
Da qui in avanti, con interpreti tutti italiani, il resoconto è in discesa. Tanto più che il titolare della parte di Bartolo è il suo più assiduo e referenziato interprete odierno, Paolo Bordogna: con ammirevole dedizione professionale, egli accetta di esasperare il lato nero, brusco, perfido e malevolo del personaggio, anche a costo di disperdere numerose sfumature che da lui si sono conosciute di volta in volta. Il suo contraltare è un non meno attendibile Marco Filippo Romano, a proprio agio in tutto l’armamentario del buffo e portato a una declinazione della parte più simpatica e scoppiettante, secondo tradizione. Dopo una prima recita con segni di fatica, grande rimonta già alla seconda per Luca Tittoto come viscidissimo Basilio, nero nell’affondo come un Caronte monteverdiano e scatenato sul palcoscenico come pochi altri suoi predecessori. Smalto consumato ed estensione compromessa ma vis comica sempre più impagabile, infine, nella Berta di Laura Cherici.
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Il Barbiere è opera che dopo la rivisitazione di Abbado non si può più proporre come opera buffonesca. Nell’allestimento bolognese si strizza l’occhio ai gusti più corrivi di un pubblico di bocca buona predisposto per atellane e fescennini e non è certo un Almaviva in veste beatle o Rosina Barbie che possono giustificare una regia e una scenografia da teatro dei burattini. Continua la discesa agli inferi del teatro comunale bolognese, un teatro che nel passato ha saputo proporre grandi realizzazioni come il Faust di Gounod o il Ring degli anni ’90. Malissima tempora….