Hugo de Ana costruisce una favola assoluta in un giardino fatato, con rose gigantesche e farfalle delle dimensioni di deltaplani
di Cesare Galla foto © Ennevì
SONO QUASI SETTANT’ANNI che Il barbiere di Siviglia non viene rappresentato in Arena con un mezzosoprano (o contralto) nel ruolo di Rosina, come l’aveva scritto Rossini. Paradossalmente, quello che rimane tuttora l’unico caso risale anche alla prima assoluta del capolavoro comico nell’anfiteatro romano di Verona, avvenuta nel 1948, protagonista la grande Giulietta Simionato. Allora, l’epoca delle edizioni critiche rossiniane era ancora di là da venire e a maggior ragione si può apprezzare l’idea della cantante romagnola di “rispettare la partitura”. In seguito, una scelta del genere non si è più verificata nelle peraltro non numerose occasioni in cui il Barbiere è tornato fra le antiche pietre monumentali. Nel 1956, il ruolo è toccato a una famosa Violetta verdiana, Virginia Zeani; l’edizione 1996 ha visto protagonista una rossiniana di valore, ma nelle parti sopranili, Cecilia Gasdia. E dal 2007, quando è nato il seducente e brillante spettacolo di Hugo de Ana che giustamente è stato in seguito riproposto con una certa frequenza, il trend non è mai stato modificato. Si è ascoltata in due edizioni l’ottima Annick Massis (2007 e 2009), poi è stata la volta di una meno efficace Aleksandra Kurzak, soprano polacco (2011). Alla terza ripresa, pochi giorni fa, ecco il doppio debutto di una delle più affermate belcantiste dei nostri giorni, Jessica Pratt: il soprano anglo-australiano non aveva mai cantato in Arena e non era mai stata Rosina. Alla fine ha raccolto il trionfale consenso del pubblico, numeroso nonostante il tempo incerto ma clemente (la pioggia ha causato solo una pausa di mezz’ora).
Il clou si è avuto nel Secondo atto, alla scena della lezione, quando Pratt ha proposto un’Aria con variazioni del compositore austriaco dell’Ottocento Heinrich Proch
Singolare edizione musicale, quella approntata in questo 93° festival. Volutamente anti-filologica sul versante di Rosina, e semmai a suo modo storica, nel tornare alla esagerata libertà interpretativa comune soprattutto nel secondo Ottocento e nel primo Novecento. Strettamente aderente alla prassi esecutiva odierna sul versante del Conte di Almaviva, con lo specialista Antonino Siragusa, pronto anche ad affrontare il conclusivo Rondò «Cessa di più resistere», spesso espunto per la sua difficoltà. Un patchwork di stili, insomma, che ha offerto al pubblico molte suggestioni ma poca omogeneità.
Fin dalla sua celebre Cavatina, «Una voce poco fa», Jessica Pratt ha fatto capire che per quanto la riguardava si sarebbe sentito un Barbiere non comune: per il gusto nella coloratura e nelle variazioni, ridondante e fortemente virtuosistico, per una linea di canto che non ha esitato a mettere in primo piano l’agilità fine a se stessa e la ricerca dell’exploit sull’acuto. E infatti, la Cavatina è stata conclusa da un Fa sovracuto certamente coraggioso, anche se non proprio indenne da un certo appiattimento e da sbiancatura timbrica. Il clou si è avuto nel Secondo atto, alla scena della lezione, quando Pratt ha proposto un’Aria con variazioni del compositore austriaco dell’Ottocento Heinrich Proch, «Deh! Torna mio ben», un pezzo favorito di soprani di coloratura antichi e meno antichi, come Luisa Tetrazzini, Maria Callas, Joan Sutherland. Pochi minuti di gorgheggi acrobatici in una sorta di catalogo di tutte le tecniche virtuosistiche più esteriori, con trilli, volate, staccati vertiginosi, salti di nota e sovracuti in serie. Tutto ben rifinito con energia ed eleganza, anche se Rossini non c’entrava per nulla.
Le doti di questa interprete sono indubitabili, ma laddove non poteva lasciare libero sfogo alla fantasia (e all’invenzione vocale, se così vogliamo definirla) e doveva restare sulla linea rossiniana, ha mostrato che lo spazio monumentale dell’Arena non è forse il più adatto alle sue caratteristiche: non facile equilibrio nei numeri d’insieme, peso decisamente non adeguato nella zona bassa della tessitura, esiguità di volume nei recitativi.
Sull’altro versante, il tenore Antonino Siragusa ha dato prova una volta di più delle sue qualità di specialista accorto e tecnicamente preciso, fine stilista che non cede mai alla tentazione di forzare. Il suo Almaviva risulta così brillante e svettante, sempre curato nel fraseggio, preciso nella coloratura, capace di una suadente dolcezza non meno che dell’articolazione ritmica trascinante. E alla fine, le tremende difficoltà del Rondò sono state superate con intelligente musicalità anche se non senza qualche affaticamento, del resto comune a tutti i tenori che ci sia capitato di ascoltare in queste pagine.
Un altro debutto areniano era quello del baritono Mario Cassi, Figaro che ha acquisito scioltezza e peso vocale nel corso della rappresentazione, dopo un inizio fin troppo guardingo e sorvegliato, nel quale la chiarezza del timbro e la genericità del fraseggio sembravano andare in direzione diversa da quella che poi si è realizzata: una caratterizzazione a tutto tondo, estroversa e musicalmente convincente. Magistrale come sempre la prova scenico-vocale sciorinata da Bruno De Simone, un Bartolo sempre un passo al di qua dell’eccesso caricaturale ma sempre in grado di strappare la risata al pubblico, con notevole spigliatezza nei parodistici falsetti. Bene anche Roberto Tagliavini, Basilio di notevole presenza vocale, e i comprimari, specie il Fiorello di Nicolò Ceriani.
Debuttava anche il direttore Giacomo Sagripanti, che raramente ha trovato colori e fraseggio adeguati alla vastità dello spazio e alla complessità di un’acustica non ben servita dai metodi per “esaltare” il suono, anche se era evidente e a tratti anche convincente la ricerca della vivacità e dell’ironia, che sono il cuore della partitura.
Lo spettacolo di Hugo de Ana, senza dubbio il suo migliore per l’Arena, costruisce una favola assoluta in un giardino fatato, con rose gigantesche e farfalle delle dimensioni di deltaplani, fra siepi che vengono continuamente spostate a disegnare un labirinto come pure una particolarissimo teatro di verzura. Giunto alla sua quarta annata, ha patito nelle fasi iniziali della prima qualche “ruggine” nella scioltezza del meccanismo e nella precisione delle spiritose coreografie di Leda Lojodice, fondamentali, ma ha fatto capire che le scorie della routine non sono troppo pesanti e che le prossime repliche potranno essere più sciolte e coinvolgenti.