Si è concluso il Festival internazionale di musica contemporanea della Biennale di Venezia. Leone d’oro al compositore Salvatore Sciarrino
di Gianluigi Mattietti
HA CHIUSO I BATTENTI ANCHE LA BIENNALE MUSICA 2016, la Biennale del Leone d’oro a Sciarrino. Un’edizione un po’ sotto tono, con molte proposte diverse ma prive di un filo conduttore, e non sempre aggiornatissime sulle varie tendenze che emergono oggi nella musica contemporanea. Eppure, come sempre, è stato possibile trovare elementi di interesse in ogni concerto. Nel concerto di Concerto di Fontanamix, accanto a lavori recenti ma di vecchio stampo, si è ammirato il pezzo di un veterano come Claudio Ambrosini, un sempreverde. Il suo Vite di suoni illustri (2012), giocato sulla ricontestualizzazione di suoni “mitici” del passato, di echi debussyani, mostrava un carattere deciso, un tratto virtuosistico, un sapiente intarsio di piani timbrici, una scrittura musicale raffinata e mobilissima, di grande freschezza, che generava vortici di suono, come folate che sembravano seguire i ritmi della natura. Niente di nuovo, certo. Ma chapeau! Molto interessante anche Noli.Me.Tangere (II), nuovo pezzo di Andrea Sarto, fatto di armonici e soffi che davano vita a una trama diafana, impalpabile, che procedeva come un respiro ansimante, animale, punteggiata da pulsazioni sorde, improvvise distorsioni, colpi di chiave, florilegi del Glockenspiel.
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Gli ottimi musicisti di Repertorio Zero si sono cimentati con due lavori dal carattere atmosferico (due prime esecuzioni) di Toshio Hosokawa (Aya, per flauto e trio d’archi amplificati) e di Valerio Sannicandro (A Book of Clouds, per quartetto d’archi amplificati ed elettrici, e live electronics): il primo, che evocava «delle donne che si dedicano a lavorare a maglia in silenzio», era dominato da un ampio melodizzare del flauto (di Mario Caroli) in un contesto armonico lieve e dal carattere impressionistico; il secondo, che intendeva descrivere diversi tipi di formazioni nuvolose, si basava su un continuo alternarsi di addensamenti e rarefazioni, con trame soffuse, lunghi pedali, riverberi spazializzati, e antipatiche cesure dovute al cambio degli strumenti (tra acustici ed elettrici). Due lavori piuttosto deludenti. I pezzi di Vittorio Montalti e di Sebastian Rivas rianimavano invece l’attenzione del pubblico, per la scelta di precise drammaturgie, dal carattere quasi teatrale. Untitled n.2(2016) del compositore romano, metteva in gioco un materiale molto dinamico, immanente, con una stretta interazione tra quartetto d’archi ed elettronica, dove si intrecciavano rumori, gocciolamenti, sibili, suoni secchi e acidi, frammenti strumentali nervosi e frasi melodiche frammentate. Ispirato a Borges, Orbis Tertius (2008) del compositore francese (di origine argentina) mostrava una chiara impronta drammatica, negli elementi gestuali, nel gioco di esplosioni e di riverberi, nelle continue stratificazioni di fasce timbriche che sfruttavano molto bene il live electronics.
Nel concerto dell’Ensemble Accroche Note dominavano i contrasti stilistici. Il Trio basso (2012) del “saturazionista” Yann Robin, una corsa a perdifiato, adrenalinica, in stile free jazz (magnifico il contrabbassista Nicolas Crosse), contrastava decisamente con il lavoro eccentrico e raffinato dell’ottantunenne François-Bernard Mâche, Reflets, per voce, clarinetto e suoni registrati, che giocava su continue metamorfosi di suoni quotidiani. Al nuovo pezzo di Pascal Dusapin, Beckett’s Bones, un affresco liederistico (per soprano, clarinetto e pianoforte) di grande forza espressiva, con un ampio declamato vocale ricco di impennate liriche, si contrapponeva Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria (per flauto, clarinetto, viola, violoncello, pianoforte e percussioni), nuovo lavoro, molto radicale, di Mauro Lanza, che richiamava l’idea di un passaggio di stato della materia (da solida ad aeriforme), trasformando gradualmente piccoli pattern ribattuti attraverso minime accelerazioni, glissandi, effetti percussivi, pulsazioni che scorrevano su vari livelli temporali.
C’erano molte prime mondiali alla Biennale. Ma il concerto dell’Orchestra di Padova e del Veneto, diretta da Ivan Volkov, è sembrato un vero tuffo nel passato. Anche se erano poi tutti pezzi di autori viventi. C’era una novità di Luca Mosca, Nothing, per soprano e mezzo soprano e orchestra (soliste Fernanda Girardini e Giulia Bolcato) con una scrittura ritmica frammentata, con un sapiente gioco di incastri timbrici, con molti richiami stravinskijani, e qualche effetto gestuale, fischi, schiocchi delle dita e di lingua, tanto per dare un tocco di modernità; lo storico Pungolo di un amore (1990) di Corghi, pezzo «a programma» per oboe e archi (solista Paolo Grazia), ispirato al mito della nascita della vite, con la parte dell’oboe usata come una voce narrante; Checkpoint (2010) di Michele dall’Ongaro, pezzo costruito per grandi ondate armoniche, che ricordavano lo spettralismo nordico di Magnus Lindberg, e concepito come «una sorta di concerto per orchestra che vuole mettere in luce le qualità virtuosistiche del complesso, così come si conviene in questi casi»; Gegenliebe (2011) di Sylvano Bussotti, pensato come dialogo con la musica del passato, come un collage volutamente disorganico di frammenti in stili diversi; Più mosso(2014) di Giacomo Manzoni, pezzo per due pianoforti e archi (solisti Alfonso Alberti e Anna D’Errico) che giocava sulla dialettica tra l’unitarietà della struttura e il senso dello sviluppo, tra un materiale lirico (molto “Wiener Schule”) e martellanti episodi ritmici.
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