di Francesco Lora foto © Casaluci
Cavalleria rusticana di Mascagni e Pagliacci di Leoncavallo fanno ancora coppia fissa? Meglio di no, consiglia il demonietto caviar dei teatri lirici nel terzo millennio; meglio non eccedere in Verismo per raggiungere il minutaggio utile a far serata; meglio disgiungere i due titoli e accoppiarli con altri di indirizzo complementare. Al Teatro Comunale di Bologna, due anni fa, il capolavoro mascagnano era stato allestito assieme alla Voix humaine di Poulenc, con regìa di Emma Dante, scene di Carmine Maringola, costumi di Vanessa Sannino e una concertazione, di Michele Mariotti, che bastava a blindare la legittimità dell’operazione (per non dire della vertiginosa Anna Caterina Antonacci lì a dare lezione di onnipotenza stilistica nella parte di Elle). Rivista in sette nuove recite dal 15 al 22 dicembre scorsi, quella Cavalleria rusticana, allora lodata per la sorprendente essenzialità, pare invece oggi invecchiata anzitempo, inoffensivo fantasma di ciò che fu. Tagliati i fittizi ponti con La voix humaine, eccola agganciata ai tradizionali Pagliacci (e odorare così – chi l’avrebbe detto, cinquant’anni fa? – di provocazione). Ma per l’opera di Leoncavallo non è stato qui presentato un allestimento gemello, affidato ancora alla Dante, bensì una lettura – nuova – con regìa di Serena Sinigaglia, scene di Maria Spazzi e costumi di Carla Teti: ed è proprio questo nuovo scomparto, dapprima guardato con sospetto in locandina, a far da pilastro portante alla produzione. La Sinigaglia dà infatti luogo a un’interpretazione senza debito verso la Dante: sostituisce il realistico al simbolico, lavora di fino con gli attori, distingue con minuziosità di tecnica e colpo d’occhio i differenti piani del teatro-nel-teatro (quello, enfatico ma sornione, del Prologo personificato che si rivolge al pubblico in sala – mentre un carrello, alle sue spalle, passa con un attrezzo di scena della Cavalleria rusticana testé conclusa – contro quello, quasi meccanico, dei commedianti che recitano per i paesani del dramma). Al cospetto di due contributi teatrali che interagiscono come l’acqua con l’olio, il direttore Frédéric Chaslin rimane super partes e riproduce il dittico dei tempi andati, sfogando orchestra e coro felsinei più con svelta generosità che con spirito d’analisi.
Dati i due titoli e due compagnie di canto per ciascuno, il resoconto sulle voci rischia di divenire un labirinto. In Cavalleria rusticana, la prima compagnia è capeggiata da Veronica Simeoni e Roberto Aronica: lei risulta qui ben più agiata, in fatto di freschezza ed estensione, che nel precedente Don Carlo a Venezia, ma approccia la sanguigna Santuzza con modi talmente forbiti da sembrare chi disdegni di cucinare toccando il cibo con le mani; lui consegna un Turiddu affiatato accanto al soprano che è anche la compagna di vita, ma smalto e timbro sono ormai a tal punto inariditi da ostacolare le attese sfumature. Meglio, allora, riferirsi ai colleghi nella seconda compagnia: una Sonia Ganassi fuori repertorio e non più intatta, ma con una tale esuberanza vocale e un tale amore del palcoscenico da lasciare ammirati, così come lascia ammirati il potente, duttile e diretto Angelo Villari, pronto a vestire la giubba di Canio nei Pagliacci dell’ora dopo. Passano da Mascagni a Leoncavallo anche Dalibor Jenis e Stefano Meo: sia come Alfio sia come Tonio, l’uno segue la via di una sottile e vendicativa perfidia, mentre l’altro è più genuina espressione di una rabbia di strada. Garbatamente funzionale la Lola di Alessia Nadin e compiaciutamente contraltile la Lucia di Agostina Smimmero. Formidabile protagonismo, in Pagliacci, è poi quello di Carmela Remigio come Nedda: questa belcantista e insieme attrice, dottamente affamata di ogni repertorio, sostiene la parte sia con la finezza di un Lied, sia con la comunicativa fisica di un film; lavora separatamente così a fondo su parola, gestualità e musica, da ricongiungerle poi con una geniale scontatezza preclusa ai più: non si saprebbe dire cosa, in lei, la spunti tra materiale naturale e tecnico nonché tra risorse canore e recitative. Benvenuta, in alternativa, è la limpida sobrietà nella protagonista di Carmen Solís, mentre accanto alla Remigio si osserva e ascolta, idealmente assortito, il Canio di Stefano La Colla, tanto impetuoso e sano quanto prodigo di colori. Simpaticamente educati i due interpreti della parte di Beppe: Paolo Antognetti e Marco Puggioni; sfaccettati e addirittura seducenti quelli di Silvio: Vittorio Prato e Vincenzo Nizzardo.