di Redazione

Quando ascoltiamo un brano di musica antica è come se ci immergessimo in epoche che non esistono più.  Il Quartetto di liuti da Milano (formato da Giulia La Marca, Elisa La Marca, Renato Cadel ed Emilio Bezzi) ci riporta indietro di più di quattro secoli con il suo disco d’esordio, intitolato Vita de la mia vita e dedicato alla musica degli ultimi decenni del Cinquecento italiano.

La raffinatezza di queste musiche e la scelta di eseguirle in questa formazione atipica impongono una seppur breve spiegazione, che ci viene fornita dal Quartetto stesso nella persona di Renato Cadel, il quale nel booklet scrive:

Nella musica d’insieme del Cinquecento, il consort di strumenti uguali costituiva una delle espressioni musicali più auliche. Esso è infatti l’imitazione strumentale di un gruppo vocale e, per la sua omogeneità timbrica, declina a livello sonoro il principio neoplatonico dell’ Uno, elemento fondamentale della cultura e dell’estetica del rinascimento.

Obiettivo principale del Quartetto è quello di presentare al pubblico odierno un panorama sonoro sufficientemente ampio da rendere abbastanza fedelmente le modalità di fruizione coeve, soprattutto delle classi colte: è proprio fra i ceti elevati infatti che si diffonde il liuto.

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Anche la scelta di autori presenti nel disco è molto ampia: si passa da madrigalisti del calibro di Arcadelt, al ‘divino’ Francesco da Milano, comprendendo anche personalità meno note come Guami o Gastoldi. Anche in questo caso c’è una scelta autoriale compiuta a monte: volendo sfruttare al meglio le possibilità espressive dello strumento, il Quartetto non si è limitato al solo repertorio liutistico, eseguendo anche brani vocali e musiche ‘per tutti gli stromenti’ [sic!].

I risultati sono sorprendenti: al di là della chiara bellezza del tocco, l’ottima scelta dei brani e la grande intesa fra gli esecutori, la cosa che più sorprende e affascina è la grande facilità espressiva: ascoltando Il bianco e dolce cigno, madrigale a quattro voci di Jacob Arcadelt, ci si meraviglia di come i quattro liutisti riescano a fondersi in un unico strumento, crescendo e attenuando l’intensità con buon gusto e misura (si ricordi che il liuto è uno strumento delicato e che non possiede la potenza di altri strumenti); in parole povere, si ha davvero l’impressione che si realizzi quella comunicazione ideale teorizza da Baldassarre Castiglione nel suo Cortegiano, in cui tutti gli interlocutori dialogano rispettando il proprio turno e comprendono l’importanza del contributo degli altri (sono oltremodo palesi le implicazioni didattiche).

Di tutt’altro genere è Lo Sdegnato di Giovanni Gastoldi, tratto dai Balletti a tre voci del 1594: in questa composizione di fine secolo la trama polifonica cede il passo alla monodia accompagnata, chiaramente molto ritmata per assolvere ai fini coreutici: è un ottimo esempio di come in quest’epoca, spesso decantata come culla dell’uomo e del pensiero razionale, fosse anche un’epoca dominata dalle passioni più sfrenate, rese ottimamente dai virtuosismi del soprano, il cui andamento nervoso e altero è ottima rappresentazione musicale del testo: Or piangi mò/ ch’io riderò/ poiché son fuor/d’ogni mator.

La bellezza di questo disco risiede nella capacità rendere visibili all’ascoltatore le immagini innervate nella partitura e nel testo, realizzando così quel viaggio temporale auspicato all’inizio di questa recensione. E niente di meno ci si aspetta da questi ottimi bravi liutisti.

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Pubblicato il 2015-06-11 Scritto da LorenzoGalesso

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