di Luca Chierici foto © Silvia Lelli
Una processione di coristi e coriste in tonaca nera si allontana in silenzio con un cero in mano lungo le navate della chiesa di San Marco dopo che ha avuto termine l’esecuzione della Messa da Requiem di Verdi, che proprio in quella chiesa cara ai milanesi aveva visto la luce nel lontano 1874. Esecuzione molto bella, lontana dal divismo che accompagna quasi sempre la presentazione del Requiem verdiano, troppo spesso presentato calcando la mano sull’effetto-melodramma che del resto ha da sempre rappresentato una delle critiche (se non l’unica) che ha di poco velato la grandezza di un lavoro sublime.
Non c’erano i grandi volti della lirica, e se molti presenti si ricordavano diverse esecuzioni del Requiem, tra la Scala e la stessa chiesa, rese celebri per la presenza di nomi come Abbado (nel 1973, 1978 e 1985) o Muti e più recentemente Mehta, e le voci della Caballé, Raimondi, la Freni, Ramey, Pavarotti, Ghiaurov… gli spettatori che affollavano la chiesa l’altra sera si trovavano immersi in un’atmosfera davvero differente e tutta volta a sottolineare il carattere spirituale dell’avvenimento. Niente applausi all’ingresso dell’orchestra, del coro, dei solisti, del direttore e niente applausi alla fine: questa era la richiesta categorica annunciata per ben due volte prima che avesse inizio la serata, che ha visto anche la presenza di un sacerdote nella lettura di un passo della Sequenza. E se la scelta delle vesti del coro era una delle tante componenti che caratterizzavano questo Requiem che sembrava pensato all’interno di qualche santuario greco-ortodosso, bisogna ammettere che lo “spettacolo” è stato congegnato alla perfezione, in tutti i particolari atti a favorire una sempre più spinta divinizzazione del Guru, ossia di Teodor Currentzis, che si può dire abbia davvero celebrato questa Messa dopo avere provato le parti orchestrali, corali, vocali fin nei minimi dettagli, rodati anche attraverso la presentazione di questo prodotto sopraffino già in altri luoghi prima di giungere a Milano. Certo, il Requiem di Verdi in san Marco è un’altra cosa. Qui le mura parlano ancora di quella mitica prima esecuzione del 22 Maggio di 145 anni fa, che era stata persino osteggiata dalle autorità ecclesiastiche, sconvolte probabilmente dall’impianto a volte melodrammatico dell’opera, dalla sua potenza evocativa impressionante, oltre che dalla presenza di protagoniste femminili e da altri dettagli che minavano l’integrità del rito ambrosiano. Esecuzione osteggiata persino da una parte del Consiglio comunale che non vedeva di buon occhio lo stanziamento di fondi per pagare le spese e i cachet degli artisti. Ci volle l’intervento di Boito e la fermezza dell’allora sindaco di Milano, Bellinzaghi, per imporre alla città quel capolavoro e in quel luogo, quasi a indicare il doveroso abbinamento del Requiem all’omaggio, pure postumo, alla morte di Alessandro Manzoni.
Per quanto si sia in tempi più recenti ritornati all’ascolto della Messa nel suo impianto originale, ossia come somma di contributi di diversi musicisti per commemorare la morte di Rossini, nulla, neanche la piacevole collezione di umori molto differenti tra loro che si trovano espressi nelle musiche dei contemporanei può minare l’importanza, scalfire la profondità del lavoro che Verdi si troverà ad affrontare successivamente da solo, ampliando a dismisura il Libera me composto in precedenza come singolo contributo.
La lettura di Currentzis è stata ammirevole sotto molti punti di vista. Innanzitutto la accentuata importanza data alla cornice spirituale si rifletteva nella rinuncia ai consueti effetti spettacolari nel Dies Irae e nell’eccessiva sottolineatura melodrammatica di altre parti che abbiamo già accennato essere state di frequente lette in quella chiave. Si diceva poi dell’analisi minuziosa dello spartito e del lavoro meticoloso compiuto con i complessi di musicAeterna, volto a rendere udibili (anche in un contesto acustico poco felice, come è quasi sempre quello di una chiesa) dettagli che raramente si ascoltano in teatro o nelle sale da concerto. I solisti di canto erano tutti all’altezza del loro compito, e se in ordine di preferenza avremmo indicato il mezzosoprano Eva-Maud Hubeaux, sia il soprano Zarina Abaeva che il tenore Dmytro Popov e il basso Tareq Nazmi si sono rivelati ben più che solidi professionisti e hanno regalato momenti di grande musica attraverso una intensa partecipazione personale. L’atmosfera di profonda spiritualità, forse troppo “preparata” in vista del risultato finale, è stata purtroppo e ben presto spazzata via dal contatto con la folla urlante del “fuori salone” che ingorgava le vie del centro di Milano.