di Luca Chierici foto © Stefania Zanetti
Per ritrovare il ricordo di un impatto simile a quello che ha avuto la serie di quattro appuntamenti che hanno richiamato l’attenzione del pubblico milanese nello scorso week-end, con ben due concerti al giorno, spalmati tra il tardo pomeriggio e la prima serata, bisogna risalire fino al 1983 alla Scala, quando una fortunata ed estemporanea tournée della Los Angeles Philharmonic guidata da Zubin Mehta aveva permesso l’ascolto delle sinfonie brahmsiane e di tre concerti (il Secondo per pianoforte, il Doppio per violino e violoncello e quello per violino solista) dove si erano misurati artisti del calibro di Kremer, Yo-Yo Ma e Ashkenazy. Un evento passeggero, che oggi non ricorda più nessuno, e che era molto simile a quello programmato nella sala del Conservatorio, protagonisti la nuova orchestra de La Fil con il suo direttore Daniele Gatti e alcuni solisti famosi come il violinista Frank Peter Zimmermann, il violoncellista Jan Vogler, il cornista Natalino Ricciardo, il pianista Enrico Pace. Non tutto Brahms, è vero, perché si sono ascoltati anche il Concerto op. 61 di Beethoven, e quello per violoncello op. 129 di Schumann, ma una prevalente presenza del grande musicista per le quattro sinfonie, il raramente eseguito Trio op. 40 per pianoforte, violino e corno e le Variazioni su un tema di Haydn. Un Gatti più coinvolto che mai ha diretto a memoria tutto il programma e come è sua apprezzabilissima consuetudine si è voltato verso il pubblico per riscuotere un boato di applausi a lui diretti solamente dopo avere ringraziato a lungo l’orchestra e i solisti per il lavoro svolto assieme. Un lungo lavoro di prove, necessario anche per realizzare l’idea del direttore, che è fondamentalmente quella di fare respirare la musica lasciando che la dinamica segua il naturale avvicendarsi della forma, ossia staccando tempi differenti che seguivano il naturale procedere della forma-sonata o della variazione. Semplice? In teoria si, ma quante volte assistiamo a letture che partono da un inconcepibile rispetto per una scansione unitaria di tempo che non è davvero scritta da nessuna parte, almeno per quel che riguarda la musica dei secoli diciottesimo e diciannovesimo? Lasciamo ai compositori del Novecento e oltre la libertà di indicare la stretta osservanza di metronomi e cronometri: la grande musica dei secoli precedenti ha bisogno innanzitutto di respirare, e la frequenza del battito è rivelato dalla qualità, dalla natura dei temi.
Sarebbe lungo compito quello di enumerare nel dettaglio i pregi di un lavoro incredibile di concertazione che ha portato Gatti a raggiungere un affiatamento perfetto con gli strumentisti de La Fil, tutti coinvolti in pari grado in questo progetto, dagli elementi più giovani a quelli che già occupano posizioni di rilievo nelle principali orchestre italiane. Un’orchestra di altissimo livello, il cui suono è stato premiato dall’acustica della sala innegabilmente più importante di Milano, quella del Conservatorio, e che ha espresso in pieno tutte le idee del proprio entusiasta direttore. Gatti non ha fatto altro che sottolineare i caratteri di un fraseggio consolidato da decenni di esecuzioni che hanno fatto la storia dell’interpretazione, cogliendone gli aspetti in una sintesi che solo un profondo conoscitore dei testi e della tradizione esecutiva può possedere. E gran parte del lavoro da lui svolto si è sicuramente concentrato nella difficile componente di trasmissione di queste idee all’orchestra, costretta a una concentrazione massima per seguire una continua fluttuazione dei tempi e delle intensità di suono.
Vi sono, soprattutto nelle quattro sinfonie brahmsiane, momenti topici di accumulazione delle tensioni che Gatti ha individuato nuovamente con grande sensibilità e che hanno contribuito a raggiungere temperature elevatissime nel momento esecutivo, strappando poi al pubblico ovazioni da stadio più che giustificate. Accanto a lui si sono ammirati innanzitutto il violinista Zimmermann, depositario di una scuola germanica che individua nella forma, ancor più che nel suono pur bellissimo la ragione fondamentale dell’analisi musicale. Jan Vogler ha letto in maniera giustamente appassionata un Concerto che rimane tra le più belle cose scritte da Schumann, in quel connubio di esaltato romanticismo e senso di tragedia della vita che è caratteristica sublime della sua invenzione. Il magnifico pianista Enrico Pace, collaboratore storico di Zimmermann, e il cornista Natalino Ricciardo hanno dato vita come già si diceva al Trio op.40 di Brahms, una pagina di difficoltà proverbiale che a volte sembra fare l’occhiolino alle irriverenti richieste mozartiane nei confronti di uno strumento non certo maneggevole. Del successo enorme si è già detto. Occorre in futuro definire una programmazione più precisa e un calendario esatto che permetta al pubblico di programmare con largo anticipo la propria presenza. Troppi vuoti in sala nelle sessioni pomeridiane non fanno onore a una città che ha il privilegio di vantare una offerta musicale di questo livello.