Maria Stuarda al Teatro Filarmonico di Verona: le due grandi belcantiste ricompongono una coppia ideale, mentre si ritrovano la scrupolosa direzione di Sebastiano Rolli e l’allestimento scenico, chiaro e sobrio, già visto al Bergamo Musica Festival
di Francesco Lora
QUANTE VOLTE «MARIA STUARDA»! A otto anni dal debutto come protagonista nell’opera di Donizetti, Mariella Devia ha collezionato recite a Roma, Catania, Milano, Napoli, Piacenza, Modena, Bergamo, Rovigo e Firenze, fino a quelle, recentissime e delle quali si va a dire, al Teatro Filarmonico di Verona (6-13 aprile). Tempo di bilanci e schiaffo al pregiudizio: la Stuarda di riferimento dei nostri giorni è arrivata alla parte con un certo ritardo; la prima occasione di debutto, nel 2004 al Teatro degli Arcimboldi, si commutò anzi in una Beatrice di Tenda creduta (creduta) più innocua. Dicevano che i mezzi vocali della Devia fossero troppo leggeri; e lo stesso si è continuato a dire all’idea di un suo approccio all’Anna Bolena, alla Lucrezia Borgia, al Roberto Devereux o alla Norma: alla prova dei fatti, di fronte al magistero della più esperta belcantista italiana oggi alle scene, ogni riserva è stata sbaragliata. E la situazione si è ribaltata: attualmente non solo i titoli suddetti sono il biglietto da visita favorito del grande soprano ligure, ma il loro allestimento è anche condizionato dalla sua presenza stessa.
Ciò che però distingue in qualche misura la Maria Stuarda da altre opere è il “primadonnismo” a doppio polo. Nel melodramma ottocentesco, di norma la primadonna è una sola e spartisce il principato con il primo tenore. Nella Maria Stuarda, le primedonne sono due, sono entrambe regine ed ambe amanti di uno stesso tenore lasciato tuttavia a margine, e non si abbassano a duettare assieme, se non nel rapido scambio di battute al vetriolo del Finale I. Qual è dunque un’Elisabetta d’Inghilterra degna della Stuarda della Devia? Chiamando Sonia Ganassi, a Verona è stata ricomposta la coppia vista nel 2010 a Napoli. E si tratta della coppia ideale, poiché la Devia e la Ganassi – quest’ultima a differenza della Pentcheva, dell’Antonacci o della Polverelli, in sé peraltro tutte notevoli – condividono linguaggio e autorevolezza artistica, non opponendo due stili, ma differenziando con tratto sottile due caratteri teatrali all’interno di uno stesso indirizzo musicale. Non bastasse, sono il soprano e il mezzosoprano italiani che più di tutti, in questo repertorio, vantano una testa coronata dai successi e una discesa in agone del pari fiammeggiante.
Ecco allora, nell’Elisabetta della Ganassi, il piglio protervo e l’accento grandioso dell’antagonista, screziato da qualche dubbio, timore, vigliaccheria, arroganza, a farne un personaggio più sfumato e tragico, ostaggio di solitudine e malconsiglio; da un registro all’altro, la voce conserva una salutare emissione alta e qualche affondo d’espressione, il timbro omogeneo e la risonanza generosa. Nell’organizzazione vocale della Devia si colgono invece, col passare degli anni, il generale indurimento dell’emissione, l’iscurimento del timbro, la vocalizzazione meno fluida e la rinuncia ad alcuni sopracuti un tempo lanciati spavaldamente al termine di arie e pezzi d’assieme. La retorica inviterebbe a dire, a questo punto, che ne abbia guadagnato la profondità espressiva; con buona pace, così non è o così non interessa primariamente che sia. Piuttosto, da allora a questa parte, rimane ferma e alta la stessa siderale, astratta e sovrana purezza del porgere, nella parola e nel canto: la migliore Stuarda dei nostri giorni non ha bisogno di reinventarsi.
Valido il resto della compagnia veronese, in particolare l’amorevole Giorgio Talbot di Marco Vinco, l’insinuante Lord Guglielmo Cecil di Gezim Myshketa e la dignitosa Anna Kennedy di Diana Mian; punto debole, invece, il Roberto di Dario Schmunk, facile sì nell’estensione e amoroso nei modi, ma fibroso nell’emissione e povero di squillo. Si ammira la concertazione di Sebastiano Rolli alla testa di Orchestra e Coro dell’Arena di Verona: sotto la sua bacchetta vigono ordine e pulizia, sostegno al canto senza pigra complicità, abilità nel tenere alta la tensione drammatica senza uscire dalle ragioni della partitura. Ammirevole, infine, anche l’allestimento mutuato dal Bergamo Musica Festival: la regìa di Federico Bertolani oppone un’Elisabetta dinamica e inquieta a una Stuarda composta e imperturbabile, forte di una più matura regalità interiore; i costumi cinquecenteschi di Manuel Pedretti si inseriscono con insospettata naturalezza nelle scene di Giulio Magnetto, le quali sono astratte, senza tempo né luogo, cifra anch’esse di uno spettacolo raro per chiarezza narrativa e sobrietà d’immagini.
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