Teatro pieno e calorosi applausi per l’opera di Giuseppe Verdi andata in scena al Teatro Comunale di Modena nella variante in cinque atti edita all’epoca da Ricordi e conosciuta come “versione modenese”
di Irene Sala
E ra il 1886 e il sipario del Teatro Comunale di Modena, ora “Luciano Pavarotti”, si alzava suscitando i primi applausi di un pubblico incantato da quella scena presso la foresta di Fontainebleau che caratterizza il I atto originale del Don Carlo verdiano, tratto dal poema drammatico Don Carlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller, su libretto francese di Joseph Méry e Camille du Locle, con successiva traduzione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini. Un soggetto, il Don Carlo, scelto e voluto da un Verdi ormai autonomo e libero dal condizionamento di impresari, librettisti ed editori, che ha però dato vita a un’opera di maestose dimensioni e di scomoda gestazione: Grand-Opéra in cinque atti nella prima rappresentazione in francese del 1867 a Parigi e in italiano a Londra, in quattro atti e in forma ridotta e riveduta (senza il I atto, i balletti e alcune scene) del 1884 per il Teatro alla Scala e infine in cinque atti nuovamente rimaneggiata nella versione del 1886 edita da Ricordi (la versione cosiddetta “di Modena”).
Ed è con un coraggioso nuovo allestimento di quest’ultima versione che mercoledì 17 ottobre alle ore 20 il Teatro Comunale di Modena ha ricordato e celebrato Giuseppe Verdi in vista del bicentenario della nascita nel 2013. Lo ha fatto mettendo in campo con orgoglio tutte le forze del territorio e le eccellenze del settore, quali il personale tecnico e artistico del teatro, lo storico laboratorio artigiano di pittura scenica del Comunale, il Coro lirico Amadeus, per creare uno spettacolo quasi interamente made in Modena; scelta da premiare visto il periodo economico nel quale il teatro italiano si trova a dover operare. La vicenda è ambientata nel 1559, anno del trattato di Cateau-Cambrésis con cui è stata dichiarata la pace tra Spagna e Francia: su questa base storica s’intrecciano i conflitti pubblici e privati: quello tra padre (Filippo II) e figlio (Don Carlo), tra idealismo (Rodrigo) e realismo (Filippo II), tra libertà (Rodrigo e Don Carlo che cercano di liberare le Fiandre) e dispotismo (Filippo II), tra potere spirituale (il Grande Inquisitore) e temporale (Filippo II). Il lavoro di Franconi Lee molto deve alla regia che fece dell’opera Luchino Visconti (rispettivamente nel ’58 e nel ’65) e mira a evidenziare i sentimenti umani così ben rappresentati da Schiller e da Verdi: libertà, oppressione, amore, ma soprattutto amicizia (il rapporto tra Don Carlo e Rodrigo trionfa fino alla fine).
Da un punto di vista drammaturgico il pregio della versione di Modena è di dare maggiore coesione e coerenza alla storia, collegando il I e il V atto. Il pubblico vive gli albori del breve e sfortunato amore tra Don Carlo ed Elisabetta di Valois (promessa, poi, per motivi politici al padre di Don Carlo, il re di Spagna Filippo II) e può ricordare quel momento nel loro duetto del V atto, quando Verdi richiama, in un contesto completamente mutato, i temi già ascoltati. Si può però capire come mai il compositore avesse deciso di eliminarlo: musicalmente il I atto non è convincente quanto il II, che presenta un preludio orchestrale dal timbro scuro e funereo, tinta dominante dell’opera anche nelle voci (quella di basso è la più presente) e il bellissimo duetto “d’amicizia” tra Rodrigo e Don Carlo, una sorta di Leitmotiv che accompagnerà i loro incontri fino alla morte di Rodrigo nel IV atto.
Dura prova per l’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, diretta da Fabrizio Ventura (direttore musicale del Teatro e Orchestra di Münster in Germania) che, tra momenti più o meno felici, svolge nelle quattro ore di musica un ruolo fondamentale per tenere unita una struttura dilatata (quasi wagneriana) che si allontana sempre più dalla classica forma d’opera italiana e un dramma ricco di sfaccettature storiche e psicologiche. Alla guida del Coro, presenza rilevante fino al III atto, il modenese Stefano Colò. Meritano un plauso i meravigliosi fondali di pittura “classica” creati dal laboratorio modenese sotto l’abile guida di Rinaldo Rinaldi per la scenografia di Alessandro Ciammarughi, abilmente messi in risalto dalle luci e dai pochi (ma ben realizzati) elementi architettonici in palcoscenico, che così precisamente incorniciano la scena degli atti e dei quadri. Pare quasi di poterlo toccare, tanto è realistico e ricco nella decorazione, l’altare d’oro all’interno della chiesa di Nostra Donna d’Atocha nel II quadro del III atto.
Unico richiamo volutamente esplicito di Ciammarughi alla scenografia di Visconti è la tomba di Carlo V, centrale nella sua monumentalità negli atti II e V. Di mirabile fattura i costumi, curati dallo stesso scenografo, in particolar modo le vesti ecclesiastiche (ancor più degli opulenti e sfarzosi abiti regali). Applauditi con calore il basso Giacomo Prestia (Filippo II re di Spagna), soprattutto per la toccante interpretazione dell’aria del IV atto Ella giammai m’amò, il baritono Simone Piazzola (Rodrigo, Marchese di Posa) per l’aria O Carlo, ascolta sempre nel IV atto e il soprano Cellia Costea (Elisabetta di Vallois) per la potente e calda voce nell’aria Tu che le vanità del V atto. Se la cavano bene anche Luciano Montanaro, nella veste di un non vedente Grande Inquisitore, e la principessa Eboli ovvero Alla Pozniak. Non convince invece particolarmente il tenore Don Carlo, impersonato da Mario Malagnini, che sembra non riuscire a dare pieno sfogo alla voce e a catturare tutte le sfumature del suo personaggio. Nel complesso Modena può ritenersi soddisfatta per la sua versione “1886 -2012”: non capita tutti i giorni, di questi tempi, di assistere a nuove produzioni così impegnative e ritrovarsi in un teatro pieno (persino di giovani!) e sinceramente entusiasta.
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