È scomparso oggi il direttore d’orchestra. A darne notizia è il Festival di Castleton, da lui fondato nel 2009
di Attilio Piovano
TRA I MOLTISSIMI archiviati nel corso dei decenni, tre ricordi scolpiti nella memoria, con una nettezza assoluta, s’impongono in questo momento in cui apprendiamo la triste notizia della scomparsa di Lorin Maazel: in primis il concerto inaugurale di MiTo 2010 a Torino, quando alla guida dell’Orchestre de Paris al Lingotto, diresse con fine ironia e il suo inconsueto, impareggiabile humour, l’Apprenti sorcier, poi le delizie della raveliana Ma Mère l’Oye: quanta grazia negli esotismi di Laideronette e le arguzie della Bella e la Bestia che Maazel cesellava col sorriso sulle labbra con una leggerezza e souplesse invidiabili, in realtà forte di una tecnica prodigiosa e di una memoria infallibile. In quella stessa serata anche le incandescenze della Rhapsodie espagnole e la struggente melanconia della Valse, il sommo Ravel, ovvero l’universo dei suoi adorati francesi. Non a caso chiuse con un bis al fulmicotone trascinando l’intero uditorio nel tourbillon dell’irresistibile Farandole da «L’Arlesienne» di Bizet e gli applausi suggellarono una serata indimenticabile.
Il secondo assai vivo ricordo è una sua Sesta di Mahler, eseguita nell’anno del 100°, ancora per MiTo, e le emozioni furono davvero intense. Terzo indimenticabile flash personale, una bella serata londinese il 13 dicembre del 2012 quando alla Royal Festival Hall lo ammirammo alla guida della blasonata Philharmonia Orchestra in Stravinskij: l’inossidabile Suite da L’oiseau de feu diretta per intero a memoria, regalando incredibili raffinatezze timbriche, poste a reagire con le telluriche incandescenze dei passi sferzati da ritmi frenetici.
Maazel possedeva un magnetismo che conquistava fin dai primi istanti; mostrava di far musica con un piacere ed una freschezza sorgive che – pur superati gli ottant’anni – nulla avevano di certa routine cui spesso ci abitua la vita concertistica appiattita nel ‘mordi e fuggi’ di direttori globtrotters. Ogni sera pareva dirigere con l’entusiasmo e l’immediatezza di un trentenne, come se per la prima volta scoprisse la bellezza e la gioia di trasmettere le proprie emozioni al pubblico: e dire che quel capolavoro lo aveva diretto centinaia di volte. Nulla di ‘costruito’, mai nulla di affettato, sempre la cordialità e l’eleganza del tratto a far da leit motiv, la serenità fatta persona e la comunicativa lontana da trucchi del mestiere. Per quanto possa sembrare retorico, d’ora innanzi sarà più triste pensare che in sala da concerto non lo vedremo più salire con passo scattante sul podio e sorridere sornione dopo aver diretto un bis infuocato.