Cinque giorni fitti di appuntamenti a Berlino con dodici prime esecuzioni assolute e quattordici prime in Germania. Tra i compositori eseguiti Philippe Manoury, Pascal Dusapin, Simon Steen-Andersen, Michael Pelzel, Johannes Schöllhorn, Sergej Newski, Oscar Bianchi. Giornata conclusiva per gli ottant’anni di Helmut Lachenmann
di Gianluigi Mattietti
IL FESTIVAL ULTRASCHALL DI BERLINO, giunto alla sua diciassettesima edizione, ha dimostrato ancora una volta il grande appeal che ha la musica contemporanea in Germania. Lo si è visto nella grande partecipazione del pubblico in cinque giorni fitti di appuntamenti, nei numerosi concerti sold-out, nella curiosità per le novità (il festival presentava dodici prime mondiali e quattordici prime tedesche), ma anche nell’approccio fresco, vivace con questa musica, che emergeva anche nel tono un po’ scanzonato delle interviste ai compositori che introducevano ogni concerto (in diretta radiofonica). Nel concerto di apertura, Franck Ollu, sul podio della Deutsches Symphonie-Orchester, ha diretto due lavori di Philippe Manoury e Pascal Dusapin, compositori francesi che stanno diventando sempre più popolari in Germania. Zones de turbulences di Manoury, per due pianoforti e orchestra (col duo pianistico Grau-Schumacher), è un lavoro del 2013 in cinque movimenti, che alternava dense trame spettrali, zone di turbolenza, incalzanti ribattuti dei pianoforti (che imitavano flussi di codici morse), un movimento centrale lento e contemplativo, una monodia disegnata dai due pianoforti, un finale molto movimentato. Basato su un gioco di ripiegamenti continui della materia sonora era invece Reverso il sesto dei sette Soli per orchestra di Dusapin (2007), caratterizzato da una forma piuttosto sviluppata (è il pezzo più lungo del ciclo, suddiviso in quattro movimenti strettamente concatenati), da una estrema variabilità ritmica e timbrica, da un incedere pesante, accordale, a tratti drammatico, ma che lasciava emergere tese arcate melodiche e diversi momenti solistici.
Nello stesso concerto si è ascoltato anche Double-up (2010) del danese Simon Steen-Andersen, compositore ricercatissimo nei festival di musica contemporanea, e dal 2011 ospite fisso della rassegna berlinese: lavoro per orchestra presentato a Donaueschingen nel 2010, sfruttava un campionatore per riprodurre suoni e rumori diversi, tratti dal quotidiano, come frammenti di voci (parlate e cantate), respiri, interferenze elettriche, suoni di un cellulare, di una macchina del caffè, di sirene, di collisioni e cataclismi, sonorità enfatizzate o distorte, decontestualizzate, che venivano imitate e “raddoppiate” dall’orchestra; frammenti che, nella prima parte del pezzo, erano montati in maniera lineare, descrittiva, e sembrano raccontare una storia, «come in un fumetto»; mentre nella seconda gli stessi elementi venivano montati con una logica più strettamente musicale. Completava il concerto di apertura la prima esecuzione integrale di …chatoiements de l’air… di Michael Pelzel, il lavoro più deludente, fatto di masse sonore ovattate, ma lungo e noioso. Il compositore svizzero, classe 1978, allievo di Georg Friedrich Haas, Hanspeter Kyburz, Wolfgang Rihm, è stato borsista del DAAD e per questo gli è stato dedicato anche un concerto monografico, con il Klangforum di Vienna diretto da Johannes Kalitzke: ma anche i tre pezzi eseguiti sono risultati piuttosto pretenziosi e sconclusionati, lontani dal proposito «di attrarre l’ascoltatore in un vortice fantastico di colori». Tutta appariva organizzato in maniera casuale, le masse di ottoni di … along 101 … (2008), i blocchi contrastanti e le trame percussive di … sentiers tortueux … (2007), la trama fitta, indistinta, estenuante (40 minuti) di Sempiternal Lockin, presentato in prima mondiale.
Di grande seduzione invece alcuni dei pezzi eseguiti dall’Ensemblekollektiv Berlin diretto da Manuel Nawri: Legno.Intile (2002) di Pierluigi Billone, imperniato sull’«idea dell’instabile, del mobile, dell’oscillante», con la sua scrittura scarna, rumoristica, piena di scatti improvvisi ed elementi stridenti, un capolavoro di finezza strumentale; Contretemps (2006) di Georges Aperghis, concepito come un combattimento tra strumenti e voce (la bravissima Sarah Maria Sun), come una trama spiraliforme e discontinua, fitta e formicolante, con belle sezioni omoritmiche e velocissime tra voce e strumenti, effetti di gocciolamenti, scariche di energia; Pièces croisées (2012) di Johannes Schöllhorn, una serie di piccole bagatelle folgoranti, timbricamente molto differenziate, basate su soluzioni anche estremamente semplici ma sempre molto ricercate negli impasti strumentali. Di Schöllhorn, compositore tedesco nato nel 1962, allievo di Klaus Huber, Emmanuel Nunes, Mathias Spahlinger e Peter Eötvös, sono stati eseguiti altri lavori all’interno della rassegna berlinese, che hanno testimoniato l’originalità del suo linguaggio musicale, caratterizzato da una costante ricerca di equilibrio tra semplicità e complessità e da una grande fantasia timbrica. Tratti emersi ad esempio in sous-bois (2014), per due violini, due viole e due violoncelli, con le sue fasce materiche, le trama rarefatte, i gesti violenti e improvvisi; e nelle deliziose trascrizioni per ensemble (di 10 strumenti) delle Douze Notations di Boulez. Ha eseguito questi pezzi l’Ensemble Modern, in un concerto che comprendeva anche un pezzo storico di Friedrich Cerha, Acht Sätze nach Hölderlin-Fragmenten (1995) sempre per sestetto d’archi, pieno di giochi coloristici; e il bellissimo gefährlich dünn – fragile pieces (2014) del lettone Jānis Petraškevičs, un pezzo atmosferico per doppio quartetto, un concentrato di fragilità, fatto di fasce sospese, sibilanti, punteggiate da bolle vagamente liriche.
Il talento drammatico del russo Sergej Newski è emerso in due lavori presentati nel concerto dei Neue Vocalsoliten di Stoccarda e del berlinese Sonar Quartett: Und dass der Tod nicht fern bleibt (2005) per voce recitante e quartetto d’archi su testi di Michael Lentz, e «Was fliehen Hase und Igel, spritzt Blut durch die Luft…» (2004), monologo per sei voci su un testo di Einar Schleef. Notevoli, nello stesso concerto, anche i pezzi “madrigalistici” di Luca Francesconi e Oscar Bianchi, entrambi per sei voci: Herzstück (2012) di Francesconi, su testo di Heiner Müller, dalla chiara impronta teatrale e “beriana”, metteva in gioco, in mezz’ora di musica, tutte le risorse della scrittura vocale contemporanea, gesti, fonemi, rumori, ma intessute in una forma carica di senso, e di sostanza musicale; Ante litteram (2013) di Oscar Bianchi traeva ispirazione da testi diversi e di carattere filosofico come The Infinite Jest di David Foster Wallace o Der Antichrist di Nietzsche, e li traduceva in una scrittura articolata, varia, molto ritmica, che si dipanava in una trama polifonica ricca di contrasti e di invenzioni timbriche e armoniche.
Un altro lavoro di Oscar Bianchi, breve e piano di pathos, intitolato Approve (2014), è stato presentato all’interno di un interessante concerto dell’Ensemble Recherche con il controtenore Daniel Gloger: una serie di sedici nuove composizioni ispirate all’aria di Purcell Here the deities approve (dall’Ode for St Cecilia’s Day del 1683). In questa “ghirlanda musicale” si sono ammirati So well below di Daniele Ghisi, … and here they do not di Francesco Filidei, per controtenore e violoncello, accompagnato da una divertente mimica facciale, l’ipnotico, duro Henry in the Sky with Diamonds del colombiano Daniel Zea, Upon ›Here the Deities‹ di Jean-Luc Hervé, dalla texture densa e avvolgente, il brulicante Cadeau di Alex Mincek, pieno di fremiti e di accenti, so well below di Schöllhorn, leggero, elegante mix di stili, l’espressionista, urlato lamento traffic di Sergej Newski, il delicato, ironico Maria Callas di Lisa Streich, il geniale Docudrama 01 – Orph & Eury di Miroslav Srnka, che mimava nella scrittura del flauto dell’oboe e del clarinetto i suoni, le suonerie, il ticchettio della tastiera, le abbreviazioni, le nevrosi della comunicazione sui social network.
Non poteva mancare, a Ultraschall, un concerto di Jörg Widmann in veste di clarinettista: insieme ai suoi Drei Schattentänze e alla giovanile Fantasie, Widmann ha interpretato anche alcuni lavori di cui è stato dedicatario, di Holliger, Rihm, Peter Ruzicka, e un’interessante recente composizione di Gerhard Winkler, Black Mirrors III (PhantasieStück) che dilatava e trasformava i suoni del clarinetto attraverso un ricercato lavoro col live electronics. Gli infaticabili Neue Vocalsolisten, insieme al soprano Sarah Maria Sun (che non ne fa più parte, avendo avviato da poco una carriera da solista), erano i protagonisti (più bravi vocalmente che scenicamente, a dire il vero) anche di una lavoro teatrale di Nikolaus Brass, Sommertag, basato sull’omonimo dramma di Jon Fosse, e già presentato all’ultima Biennale di Monaco: testo cupo, malinconico, era il racconto di una donna che ricorda la partenza del marito per mare, e l’inutile dolorosa attesa del suo ritorno, attraverso continui flashback della loro tormentata storia d’amore. Scarna, inutilmente dilatata, priva di tensione, la partitura di Brass, per cinque cantanti e sei strumenti. Essenziale, molto fisico, claustrofobico, l’allestimento affidato alla regia di Christian Marten-Molnár, alle scene scarne di Katherina Kopp, ai video di Georg Lendorff, che trasformavano lo spazio scenico in una specie di grande gabbia.
Il festival si è chiuso con un’intera giornata dedicata a Helmut Lachenmann, per festeggiare i suoi ottanta anni. Il Quartetto Diotima ha eseguito, con straordinaria intensità, il Quartetto n.2 «Reigen seliger Geister» (1989), e il Quartetto n.3 «Grido» (2002). Il Trio Catch ha presentato uno dei suoi cavalli di battaglia, Allegro sostenuto (1988), insieme a un nuovo lavoro di Vito Zuraj, Chrisantemum, dedicato alla recente scomparsa di Armin Köhler, a un duetto per clarinetto e pianoforte dell’iraniano Mehran Sherkat Nadeiri, intitoalto Wenn in einem Land der Schatten kleiner Menschen immer größer wird, geht dort die Sonne unter (2012), a bersten, platzen (Paramyth 4) di Clemens Gadenstätter, che mescolava in modo originale frammenti di scale e cadenze. Anche la Deutsches Symphonie-Orchester di Berlino, insieme al Quartetto Diotima, e sotto la direzione di Lothar Zagrosek, ha reso omaggio a Lachenmann con Tanzsuite mit Deutschlandlied (1980), pezzo pieno di vita, di pulsazioni, di rumori (forse un po’ troppo amplificati). E nello stesso concerto ha eseguito Motions // der doppelte Blick (2014) di Isabel Mundry, caratterizzato da una scrittura molto drammatica, piena di contrasti e squarci armonici. Nel concerto finale due piccoli capolavori di Enno Poppe, Haare per violino solo (2014), e di Simon Steen-Andersen, Study for String Instruments #1 (2014), hanno fatto da pendant a un pezzo storico di Lachenmann, Schwankungen am Rand (1975), diretto da Emilio Pomàrico sul podio della Rundfunk-Sinfonieorchester. Pezzo radicale nel quale suono e rumore si dispongono parallelamente su molti strati, generando un flusso insieme affascinante e terrificante. In questo lavoro, frutto di un laboriosa ricerca sulle proprietà sonore delle lastre metalliche, Lachenmann ha reinventato la musica strumentale: «Quando il progetto fu completato, non ero più la stessa persona; ero pronto per avventure in altre zone del pensiero. Alla fine mi sembrava di essere arrivato in un posto che mi permetteva di guardare in tutte le direzioni».