Serata inaugurale della Stagione 2014-15. Daniel Barenboim ha diretto con successo Fidelio: è anche il suo commiato dall’incarico scaligero. La regìa di Deborah Warner ambienta l’opera in una struttura industriale, senza forse essere particolarmente innovativa. Applauditissimi Anja Kampe e Peter Mattei
di Luca Chierici | Foto Brescia-Amisano © Teatro alla Scala
L’INAUGURAZIONE DELLA STAGIONE D’OPERA 2014-15 al Teatro alla Scala era caratterizzata quest’anno da almeno due avvenimenti che influivano sulle scelte di programma: il termine dell’incarico di Daniel Barenboim quale direttore musicale e la vicinanza temporale con la prossima programmazione di spettacoli coincidenti con la presenza di un evento straordinario come Expo, fatto questo che indebolisce un poco il ruolo della festa tradizionale del sette dicembre. Per il suo addio – speriamo non definitivo – Barenboim ha scelto un tema che gli sta molto a cuore e che è in parte legato alle sue attività in corso e future a Berlino, concentrate sulla creazione dell’Accademia che prende il suo nome e quello di Edward Said. Tra i motivi che hanno portato nel 1999 alla creazione dell’Orchestra Divan e poi dell’Accademia vi è quello della fratellanza dei popoli ma anche del rapporto tra musica e politica. In tal senso Barenboim ha scelto per l’inaugurazione di quest’anno l’opera che più e meglio si lega a quest’ultimo contesto, sia perché Fidelio nasce sulla scia delle pièce à sauvetage nate nella Francia di fine secolo, sia perché la revisione finale dell’opera data al 1814, su incoraggiamento del Principe Lichnowsky e a un anno da quel Congresso di Vienna che ristabilirà un assetto non certo libertario nell’Europa sconvolta dall’avventura napoleonica. Ideali libertari e restaurazione si scontrano dunque nel Fidelio con una evidenza che non passa certo inosservata.
Frutto di versioni concepite in anni differenti, con ben quattro Ouverture che complicano le scelte, Fidelio è un’opera che si può prestare a diverse letture, tanto che in questi ultimi anni alcuni grandi direttori hanno cercato di spezzare una consuetudine felice che si era assestata anche sulla esecuzione della cosiddetta Leonora n.3 prima della scena finale del secondo atto. Pagina sinfonica di fascino sommo, la Leonora n.3 contribuiva grandemente a convogliare tutta l’attenzione sull’atto secondo, anzi ad anticipare lo scioglimento del dramma ponendo l’ascoltatore in un determinato stato d’animo che aumentava la trepidante attesa del grande Finale. Alla Scala chi fu spettatore di una recita straordinaria diretta da Leonard Bernstein nel 1978 sa bene cosa significava quella straordinaria accumulazione di tensione che portava il pubblico, al termine della Leonora n.3, a manifestare un entusiasmo quale raramente si udiva in teatro. Poi le letture di Muti, più ispirate a un ideale cherubiniano, o quelle di Abbado, ancora più prosciugate e “cameristiche” avevano contribuito a illuminare sotto altre prospettive il capolavoro beethoveniano.
La scelta da parte di Daniel Barenboim di rinunciare alla Leonora n.3 ma di iniziare l’opera non con la tradizionale Ouverture bensì con la Leonora n.2 ha costituito una nuova piccola rivoluzione nella tradizione interpretativa del Fidelio e ha contribuito a orientare l’attenzione su altri aspetti, dimostrando ancora una volta come i grandi capolavori rivelino nuove sfaccettature a seconda dei differenti punti di vista. La Leonora n.2, preceduta dall’inno nazionale che questa volta Barenboim non si è dimenticato di eseguire, comunicava un senso di turbamento che ci poneva in guardia nei confronti delle parti più cupe del secondo atto, e bene ha fatto Barenboim nel proporre un percorso che differiva visibilmente da tutto ciò che era stato fatto in precedenza, prediligendo tempi lenti e meditati. Di contro veniva da Barenboim dato ampio spazio all’atmosfera di schermaglia amorosa tra Marzelline e Fidelio, che trova un primo risultato espressivamente straordinario nel famoso Quartetto, forse la pagina musicale in tutto il repertorio nella quale i contenuti risultano assai più profondi e sublimi di quanto il testo non riveli in realtà. Di grande effetto è stata secondo noi tutta la resa dei lati più oscuri dell’opera, culminanti nell’ambientazione nei sotterranei del carcere all’inizio dell’atto secondo. L’oppressione da parte del Tiranno ma anche la splendida rappresentazione dell’amor coniugale – tema carissimo a un Beethoven che non approdò mai a un rapporto definitivo con una donna – venivano seguiti da Barenboim con una attenzione e una sensibilità tutte particolari che sono state colte dal pubblico, entusiasta dall’inizio alla fine per la proposta del direttore.
La regia di Deborah Warner, per la quale tutti si aspettavano meraviglie, ha condiviso solo in parte la chiave di lettura di Barenboim e ha indugiato molto sull’aspetto di contemporaneità della tirannia e del carcere ricordando da vicino le tristissime situazioni che si sono verificate nel nostro mondo durante gli ultimi quindici anni, dalle guerre in Afghanistan alla Siria, dalle prigioni di Guantanamo al conflitto libico e via dicendo. Purtroppo il materiale a disposizione di un regista che voglia ambientare questa tematica in epoca moderna è davvero troppo abbondante e lo spettatore non può che provare sconforto nel pensare che gli avvenimenti narrati in un’opera di duecento anni fa non siano per nulla lontani da una realtà odierna che supera anche i limiti della fantasia. L’assetto voluto dalla regista non diceva però nulla di nuovo rispetto a tante altre realizzazioni del passato, né le scene di Chloe Obolensky hanno cambiato granché nei confronti di quelle più tradizionali che hanno da sempre giocato sulla presenza di grandi mura incombenti e di porte che si richiudevano ineluttabilmente a limitare la libertà dei prigionieri.
La prigione di Pizzarro era una vecchia struttura industriale che era troppo colma di certi particolari scenici che preferiremmo dimenticare, come l’abbondanza di utensili moderni e di moderne strutture di delimitazione (le reti di plastica arancione), persino il mocio per lavare i pavimenti. La scena di liberazione finale è sembrata completamente fuori dalle righe, comunicando una euforia che si trasformava in baccano (e qui purtroppo anche la mano di Barenboim si è rivelata piuttosto pesante) e gli operai che festeggiavano la liberazione finale dei prigionieri ricordavano piuttosto uno sciopero ben riuscito o la festa tradizionale per la conclusione di un importante lavoro pubblico, situazioni ben lontane da quelle richieste dal libretto. Unica idea di rilievo si è rivelata quella – non sappiamo quanto effettivamente voluta – di accecare gli spettatori con la forte luce di una torcia elettrica che Pizzarro usa nel momento in cui scende nei sotterranei della prigione per assassinare Florestan: effetto che rendeva bene l’idea di quanto dolorosa possa essere la visione di una luce così forte da parte di chi è rimasto per mesi imprigionato nell’oscurità, sorta di tortura che siamo certi venga impiegata anche oggi in più di un luogo di detenzione.
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Fidelio non è un’opera di tradizione italiana per la quale l’apporto dei singoli cantanti possa essere valutato solamente in base a considerazioni belcantistiche. Si tratta però di un lavoro nel quale l’apporto vocale e scenico da parte dei protagonisti è pur sempre molto importante, anzi più difficile ancora da soddisfare proprio perché ai cantanti vengono richieste doti di recitazione non comuni.
Parte del cast non si è rivelato particolarmente felice sotto il profilo puramente vocale: della pur applauditissima Anja Kampe, che ha fatto rimpiangere la Meier di qualche anno fa, non è piaciuto un timbro a volte vibrato e di faticosa emissione nella regione grave che mal si adattava alle richieste del segno, così come il Florestan di Klaus Florian Vogt, che non ha riscosso un particolare successo, lasciava molto a desiderare come qualità di emissione. Di non particolare rilievo la Marzelline di Mojca Erdmann e il Pizzarro di Falck Struckmann, più di spicco il Jaquino di Florian Hoffmann, mentre una sicura professionalità ha sostenuto gli esiti del Rocco di Kwangchul Youn. Applauditisismo è stato anche quel fuoriclasse di Peter Mattei, che si è presentato in giaccone sportivo e cravatta come improbabile Don Fernando, e il sempre bravissimo coro diretto da Bruno Casoni. Tutto ciò ha portato alla realizzazione di uno spettacolo che verrà ricordato soprattutto per la visione di un Barenboim sempre più coinvolto in quella musica che evoca espressamente temi di grande impegno umanitario.