Americana • Tra successi e incomprensioni, la vicenda di un compositore atipico convinto che la musica fosse «una scienza delle emozioni»
di Giampiero Cane
È probabile che quello di George Gershwin sia il più conosciuto tra i nomi dei compositori presenti nella storia della musica americana; del resto è uno dei più noti della musica popolare in occidente e, ci si potrebbe scommettere, il più conosciuto tra quanti hanno scritto musica d’intrattenimento oltre che di tradizione accademica.
Si fa fatica a spiegarsi nei generi; è tutto così confuso. Se scrivo “musica leggera” penso sì a Tintarella di luna, cantata da Mina, ma anche a ’Round Midnight di Thelonious Monk, all’Appassionata di Beethoven, al Viaggio a Reims di Rossini, al Poème électronique di Varèse, a tutte quelle che incontro con gioia, che ascolto appassionatamente, senza fatica alcuna. Non è un “genere”, ma per me è tutta “musica leggera”. Il contrario di “leggera” dovrebbe essere “pesante”, ma non si usa e al suo posto si dice piuttosto “accademica”, “classica”, ma si vorrebbe dire “pedante”. Per me Manzoni, Bruckner, i predicozzi di Dylan e seguaci, il Parsifal, Ferneyhough, Mascagni, Grisey e un po’ tutto il gnico-gnico dell’archetto settecentesco coi suoi suoni di porcellana, nemmeno questo è un genere, ma per me è “musica pesante”.
Non sono comunque giudizi analitici sulla musica, ma la confusione c’è perché, per esempio, se a New Orleans e nel sud degli States a trent’anni dall’emancipazione i “negri” (allora si diceva così) sapevano bene cosa suonare ai funerali, musica “non leggera”, non è però che suonassero estratti dal Tristano, dal Sigfrido, dalla Lucia o dal Trovatore, che nella mia accezione son tutte musiche leggere, ma una musica assente, un qualcosa che non c’era, che non occupava nulla se non l’attesa, musica per banda di gusto francese, da cerimonia ai giardini pubblici. Ciò in attesa che potessero partire gli inni religiosi, cioè la dance music che accompagnava il ritorno dalla cerimonia funebre con cui si salutava la gioiosa dipartita di una persona che non avrebbe più sofferto e forse sarebbe stata più vicina al suo dio.
Non necessariamente si tratta di far coincidere quel che è colto con le barbogie musiche accademiche, né il popolare col noioso risaputo. Il solenne può avere l’aspetto del cerimoniale come il gioioso il peso della disco music. George Gershwin (che non incorpora pienamente nessuno dei due poli) nutre la sua musica di aspetti che vengono dall’uno e dall’altro. Arrivò alla musica in età che oggi considereremmo avanzata per diventare un concertista di cartello, ma soprattutto ci arrivò per caso, dato che un pianoforte entrò in casa Gershwin a Brooklyn nel 1910, quand’egli aveva un dodici anni, ma lo fece portatovi per lo studio del fratello Ira, di 2 anni maggiore. Questi, non George, doveva diventare musicista, ma ebbe invece un fortunatissimo destino come paroliere, collaborando con decine di autori, col fratello in maniera privilegiata, ma con Arlen, Weill, Kern, Vernon Duke, Warren, il gotha insomma della musica di Broadway.
Il primo successo di rilievo di George fu Swanee (1919) che gli aprì le porte degli Scandals di George White, teatro musicale simile al varietà, pieno di lustrini e di illusioni, con file di soubrette su palcoscenici da sogno.
Dell’anno 1924, nel quale si chiuse la collaborazione con White, è l’improvvisa santificazione, con Lady, Be Good! e con la Rhapsody in Blue. Mentre la prima pone il sigillo alle canzoni pop, la seconda dà l’avvio a una infinita discussione sui meriti di George Gershwin quale compositore.
Se si accetti che i generi non esistano, che servano a sbrigarsi nella pratica, che ogni musica possa essere una monade col diritto di essere giudicata solo per sé, se si ritenga che Offenbach, J. Strauss e Gershwin siano in realtà non comparabili perché li separa l’avvento della società di massa e degli strumenti di comunicazione che a ciò fanno seguito, molti dei dilemmi cascheranno perché prima di tutto cadrà l’idea di un sempiterno primato della musica tedesca dell’Ottocento.
La discussione su Gershwin è stata riassunta benissimo da Gianfranco Vinay (in AA.VV., Gershwin, edt,1992): la poetica del musicista, «quale si può evincere dai suoi articoli, non appare tanto come la presa di coscienza di una personale e organica tendenza estetica, quanto come la giustificazione in itinere della propria operatività compositiva all’interno della cornice della società e della vita musicale del suo tempo». Il jazz e il pop sarebbero la realtà da cui Gershwin parte, intenzionato a nobilitarli, facendoli propri con originalità. Quest’ultima, la perfezione tecnica e la conservazione di un vivo legame con la melodia e l’armonia dell’epoca sono per lui garanzia di ascolto, qualità e durata. La musica è un linguaggio universale dato che può essere capito da tutti, senza che abbia influenza la competenza musicale. Progresso ed emozione bastano, non serve la sperimentazione, la ricerca; funzione della musica è comunicare: «Mi piace – scrisse – pensare alla musica come a una scienza delle emozioni». È una convinzione molto vecchia, è alla base della teoria degli affetti (Rossini), ma è anche ciò su cui s’appoggiano i cantautori dal blues in poi. Un’ottica conciliabile con la visione romantica, ma affatto aliena a ogni oggettivismo, quello di Hindemith come di Chopin o Poulenc, ma anche della musica del ballo liscio.
Mentre nulla, proprio nulla veniva opposto alle canzoni di Gershwin, non sempre l’accoglienza alle sue musiche concertistiche dà la sensazione di altrettanta disponibilità. Secondo Nicholas Tawa, «i compositori d’indirizzo moderno che negli Usa pensano all’arte, alle ragioni estetiche, preferiscono la storia e la partecipazione alla critica. Sanno che la loro musica ha un fascino che non attrae i più e, di conseguenza, si barricano in una rigorosa militanza» (N. E. Tawa, Serenading the Reluctant Eagle, Schirmer Books, London/New York, 1984). Per la mancanza di questo “radicalismo” il popolare diventa volgare; la musica d’intrattenimento è priva di interesse perché non chiede nulla all’ascoltatore. Al punto che nemmeno Gershwin pare avere coscienza del valore dei materiali che usa. Il suo sembra un procedere del tutto acritico, che fa sospettare che la Rhapsody e l’American non siano che composizioni scadute e pretenziose. Ciò anche perché Gershwin pare essere musicista soprattutto conservatore, che se ne sta alle ragioni e ai modi della musica in uso. Tra queste “ragioni” ovviamente c’è quella della superiorità della tradizione colta europea, ovviamente soprattutto tedesca, nei confronti della musica negli Stati uniti. A questo proposito è divertente la ricerca di Gershwin per acquisire un insegnante colto. Schoenberg, Stravinskij, la Boulanger, Maurice Ravel, Karl Goldmark, Ernst Toch e altri furono da lui avvicinati con questo fine, ma tutti sgattaiolarono via con una scusa o con l’altra: Stravinskij per esempio dicendo che sarebbe stato lui a dover prendere lezioni dall’altro, visto quel che guadagna con la sua musica, Ravel, invece, opponendogli che non capiva perché egli volesse diventare un modesto Ravel, rinunciando alla propria originalità. Sono aneddoti comunque, la cui fonte è lo stesso Gershwin. Per quel che interessano hanno poi il valore che hanno.
Porgy and Bess è il capolavoro di Gershwin nella convinzione della generalità dei critici. Personalmente non condivido l’incondizionato apprezzamento
Tra il 1924 e l’anno successivo Gershwin costruisce le fondamenta della sua fortuna di musicista. Le tappe fondamentali sono nel concerto di Paul Whiteman (12 febbraio ’24) nel cui programma è inclusa A Rhapsody in Blue, e il concerto alla Carnegie Hall, nel dicembre del ’25, nel quale presentò il Concerto in fa. Tra le due serate ci sono il film The King of Jazz e una residenza londinese del musicista. Il concerto con Whiteman fu un’americanata con un programma incredibile:
Titolo: Un Esperimento nella Musica Moderna
I – Jazz autentico: a) 10 anni fa: Livery Stable Blues, b) con abbellimenti moderni: Mama Loves Papa
II – Selezione di operette: a) originale di Yes We Have No Bananas, b) commedia strumentale: So This Is Venice (adattamento dal “Carnevale di Venezia”)
III – Contrasti: Orchestrazione originale e orchestrazione in stile jazz: a) selezione nella forma autentica di Whispering, b) la stessa selezione trattata a jazz.
IV – Composizioni recenti con orchestrazione moderna: a) Limehouse Blues, b) I Love You, c) Raggedy Ann
V – Zez Confrey (pianoforte) con accompagnamento d’orchestra: a) selezione di noti motivi, b) Kitten On the Keys, c) Ice Cream and Art, d) Nickel in the Slot
VI – Flavoring selection su temi presi a prestito: Russian Rose dal “Canto dei battellieri del Volga”
VII – Trascrizione semi-sinfonica di melodie conosciute: Alexander’s Rag-time Band, A Pretty Girl Is Like a Melody, Orange Blossoms in California.
VIII – Suite di serenate: a) spagnola, b) cinese, c) cubana, d) orientale
IX – Adattamento al ritmo di ballo di canzoni di successo: a) Pale Moon, b) To a Wild Rose, c) Chansonette.
X – George Gershwin (pianoforte) A Rhapsody in Blue, con accompagnamento d’orchestra
XI – Nel campo dei classici: “Marcia n.1” da Pomp and Circumstance di Elgar.
Il pezzo d’apertura è un immeritevole classico del jazz (classico solo perché fa parte della prima seduta di registrazione di musiche jazz, col gruppo di Nick La Rocca). Edward “Zez” Confrey fu un peruviano di talento che studiò a Chicago, dedicandosi al pianoforte da spettacolo, forse una specie di Liberace. La Russian Rose si deve a Grofé, a Berlin la Suite di serenate. Le cronache dicono che a seguire questa sfilata carnevalesca di musiche in maschera ci fossero anche Jascha Heifetz, Fritz Kreisler, John Sousa, Igor Stravinskij, Willem Mengelberg, Walter Damrosch, Mischa Elman, Leopold Godowsky, Sergej Rachmaninov e Leopold Stokowsky. Qualcuno forse vi andò per capire come si potesse diventare “americani” anche senza un intervento chirurgico, altri, come Sousa, perché “americani” lo erano già a pieno titolo.
Visto il programma, non stupirà che le attese si concentrassero sulla pagina di Gershwin, la quale nel concerto trionfò. Ha ancora un diffuso successo tra languori e sincopati del clarinetto. Inzeppata di blue note, gioca con l’ambiguità che queste presentano, potendo valere semplicemente come note diminuite. Nella Rhapsody abbiamo un continuo modulare, ma la composizione resta interamente appoggiata alle idee melodiche. A proposito di queste, Bernstein sull’Atlantic Monthly dell’aprile 1955, in un pezzo intitolato «Perché non corri sopra a scrivere un grazioso pezzo di Gershwin?» (Why Don’t You Run Upstairs and Write a Nice Gershwin Tune?) affermò che «non basta mettere insieme quattro motivi, anche se di divina ispirazione, e chiamare il pezzo una composizione. È vero che comporre significa mettere insieme, ma messi insieme, i vari elementi debbono formare un tutto che si integra armonicamente. Compono, componere […] appena scatta quel piccolo congegno che si chiama sviluppo, ecco che l’America vola via dalla finestra e Čajkovskij entra dalla porta con tutti i suoi seguaci. Il guaio è che la vita di un compositore dipende dal suo sviluppo[…]».
Qui Leonard Bernstein ripropone il problema Gershwin che può essere posto molto semplicemente così: come autore di canzoni non c’è dubbio alcuno sulle qualità di Gershwin, ma come compositore, cioè come autore di musica che prima di tutto si rivolge all’ascolto, la sua qualità è molto dubbia. Oggi dovremmo dire però che se l’argomentazione di Bernstein sullo sviluppo dovesse essere tenuta come pienamente valida e sempiterna, non si saprebbe proprio come giustificare musicisti quali Philip Glass o Michael Nyman e, probabilmente, come Scelsi, restando fermo che Satie e gran parte di Cage sono estranei a qualsiasi idea di sviluppo. Ma, immediatamente, senza aspettare Bernstein, dopo la Rhapsody e dopo il Concerto in fa, la disapprovazione dei teorici era stata consistente, quasi unanime. Gershwin guadagnava un sacco di soldi, ma la parte accademica della musica in Usa non ne approvava i lavori. Di conseguenza, ancora nel 1931 un Toscanini si rifiutava di dirigere la Rhapsody. Ma è certo che l’austerità non poteva aiutare Toscanini a capire musiche che, nella società di massa, si proponevano di coinvolgere la moltitudine, ma andando oltre il semplicismo delle pop song.
George Gershwin a questo punto della sua evoluzione, dopo essersene venuto per un po’ in Europa, dove ha modo di conoscere Ravel, Prokof’ev, Weill, qualcuno del Gruppo dei Sei e Berg, della cui Suite lirica s’innamora, cerca di chiudere una fase. È la perfezione di Of Thee I Sing, musical che alle melodie contagiose aggiunge un tocco di satira politica, cosa rara in Gershwin, forse esclusiva di questo show. 441 repliche, tre volte e mezza circa più di quante ne avrà tra 4 anni, nel 1935, Porgy and Bess; ma quest’ultima resterà poi in repertorio, ripresa qua e là nel corso del secolo, mentre il musical si ridurrà in sostanza alla canzone che ne porta il titolo, nemmeno questa ripresa spesso (per quel che ci risulta ci sono 2 edizioni discografiche complete, pezzi sparsi e nella discografia jazzistica soltanto un’edizione, con il quartetto di Stan Getz nel 1955). Il musicista comunque non pensò che quel musical e quell’opera avrebbero ottenuto solo il consenso del pubblico del genere, quindi di una minoranza acculturata, ma credette di «aver messo insieme qualcosa che nella musica americana avrebbe coinvolto la moltitudine» (Charles Schwartz, Gershwin, His Life and Music, Indianapolis, Rinehart & Winston, 1971).
Porgy and Bess è il capolavoro di Gershwin nella convinzione della generalità dei critici. Personalmente non condivido l’incondizionato apprezzamento. Ritengo che sia un’opera “sbagliata” perché, “fatta a pezzi”, ha assai più successo che non nell’insieme. Però ha qualcosa che ne fa un’opera unica. Quella di Gershwin qui è una scrittura che comincia a mostrare come la materia della musica popolare degli States possa essere utilizzata per scrivere musica d’arte. La vicinanza di Gershwin al jazz, almeno a quello che ha conosciuto, ha a fondamento il pondus modesto dell’armonia in ambo i campi. Il compositore ha dato anche prove di sapersi muovere agilmente nelle sue complessità, per esempio nella Cuban Ouverture, ma non è quel che gli interessa: si dedica decisamente più a fondo a inedite soluzioni ritmiche, come in Fashinating Rhythm.
A prescindere da ciò, quest’opera è estremamente duttile: spesso può essere modificata e non perde nulla. Anzi, con Miles Davis e con Ray Charles e Cleo Lane ci guadagna. Le interpretazioni di Summertime di Billie Holiday e di Miles Davis potrebbero essere importate nel testo in un qualche allestimento e non ci sarebbero urti. Le difficoltà sarebbero le solite: dei manierismi connessi coi generi e dell’invadente ottusità della filologia. Già così com’è, le canzoni che vi si ascoltano sembrano qualcosa di sconveniente per un’opera agli amanti del melodramma, ma il pubblico comune sembra voler essere accertato sulla natura, se si tratti di un’opera o di un musical, mentre gli appassionati di teatro, che subito capiscono con quanta libertà ci si possa muovere nella messa in scena, finiscono col trovare d’impaccio la musica, le atmosfere, i passaggi recitativi che il testo prevede. È il suo barcamenarsi tra cose piuttosto differenti quello cui ci si può più facilmente appigliare per dire limiti e debolezze del testo. Per esempio, è musica che può diventare “nera” in virtù degli interpreti, cioè che di per sé non lo è, come fu subito evidente alla critica di colore. Virgil Thomson, che stroncò l’opera, sebbene le riconoscesse potenza e vigore, finì col dichiarare che non gli dava fastidio che un compositore di musica leggera volesse diventare un compositore serio, ma che non sopportava l’idea che lo facesse tenendo il piede in due scarpe. Ma diremmo che questa fosse proprio una caratteristica autentica di Gershwin: lo stare in una sala degli specchi, non necessariamente deformanti, anzi, ma capaci di mostrare anche la mano nascosta, la schiena insieme alla fronte.
Quanto a contraddizione tra impatto e qualità “merceologica”, Porgy and Bess potrebbe far coppia con Cavalleria rusticana, che anch’essa offre canzoni belle e brutte, una falsa musica locale, un mondo popolare altrettanto marginale quanto quello dei neri di Catfish Row. All’opera italiana manca però Sporting Life, che sembra prendesse quasi naturalmente lo stile di Cab Calloway, che però non ne fu l’interprete. 45 anni di distanza però non sono pochi, come non è piccola la differenza tra l’Italietta umbertina e gli Usa di Franklin D. Roosevelt. E comunque, a proposito di canzonacce, Verdi non era stato molto leggero nel metterne una in bocca al Duca di Mantova.