Serata inaugurale della stagione 2015-16: lunghe ovazioni per la nuova produzione del teatro milanese. Molto applaudita la direzione di Chailly, cast vocale di rilievo con Anna Netrebko e Francesco Meli. Il Coro è protagonista
di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
UN SUCCESSO UNANIME, COME NON SE NE REGISTRAVANO DA TEMPO, ha accolto alla Scala la Giovanna d’Arco verdiana, assente dal teatro milanese da centocinquant’anni. Merito di Riccardo Chailly, che ha voluto fermamente questo titolo per l’apertura di stagione, di un team che ha proposto un allestimento tutto sommato originale, di una compagnia di canto eccellente e del coro che qui ricopriva un ruolo primario.
Chailly, che da sempre è un grande sostenitore del primo Verdi, ha diretto come meglio non si poteva una partitura non certo facile e ha contribuito con cura amorevole al successo della compagnia di canto
Alla base di Giovanna d’Arco ribollono polemiche ultracentenarie sulla coerenza storica del libretto di Solera e quindi sulla validità di un’opera verdiana che alla Scala ebbe vita difficile anche per motivi organizzativi e di conflitto tra autore e impresario. È proprio la posizione singolare di questo lavoro all’interno del catalogo verdiano e le contraddizioni che popolano il libretto a rendere plausibile e fattibile un’operazione registica che a propria volta reinventa i contorni di un soggetto aggredibile attraverso chiavi di lettura anche distanti tra loro. Come ogni personaggio il cui carattere si confonde tra il rigore della Storia, la tradizione popolare, la rielaborazione letteraria e persino cinematografica, Giovanna può essere la fanatica protagonista di un poema di Voltaire cosi come l’angosciata martire del film di Dreyer o la visionaria eroina di Schiller.
Parte dell’assunto registico di Moshe Leiser e Patrice Caurier discende da una lettura a senso unico dei conflitti che agitano la protagonista, riconducibili a un delirio mistico a propria volta originato da un caso clinico di isteria a sfondo sessuale. Non solo, i registi immaginano (senza peraltro proseguire nell’assunto in maniera coerente al momento del finale) che l’intera vicenda sia vissuta da una paziente come in un delirio, all’interno di una dimora borghese ambientata al tempo di Verdi e di Solera. Espediente questo già ampiamente sfruttato in molte regìe liriche, ma in questo caso perfettamente consono alla vicenda narrata in un libretto che non è certo un capolavoro di chiarezza e di consequenzialità. È chiaro che questa interpretazione trascende di gran lunga sia i contorni del testo di Solera che i significati della musica di Verdi. E a quest’ultima crediamo vada addebitata parte della non frequente proposta del titolo per così tanti anni. Per quanto si possano esplorare nella partitura motivi anticipatori del Verdi della maturità, per quanto si analizzino le ricorrenze del tema del valzerino “demoniaco” che, riprodotto a quei tempi su un organo meccanico ambulante per la città di Milano mandò in bestia gli austriaci, è difficile che la musica di Giovanna d’Arco possa mai essere considerata alla stregua di un capolavoro, prova ne sia che le poco più di due ore dell’opera sembra non trascorrano mai, per il ripetersi continuo di situazioni musicalmente troppo omogenee, scarsamente differenziate.
E non è da dimenticare che uno dei motivi che hanno suggerito il prudente recupero dell’opera fin dagli anni ’50 del secolo scorso è più da ricercarsi nella riproposizione di una vocalità impervia e raffinata che mette a dura prova le doti del tenore e soprattutto della protagonista, che si chiami Tebaldi o Caballé o Anderson e oggi Netrebko. La “Arco Renaissance” ha visto un relativo infittirsi di proposte negli ultimi anni e l’odierno spettacolo scaligero non ha il crisma dell’originalità assoluta, non foss’altro a causa delle recite salisburghesi del 2013 con la stessa coppia Netrebko-Meli e quelle condotte da Chailly a Bologna nell’89.
Chailly, che da sempre è un grande sostenitore del primo Verdi, ha diretto come meglio non si poteva una partitura non certo facile e ha contribuito con cura amorevole al successo della compagnia di canto. Nonostante l’assenza di Carlos Álvarez per precarie condizioni di salute (annunciata anche dal Sovrintendente Pereira all’inizio della recita) lo spettacolo è decollato alla grande con la presenza della già citata coppia Netrebko-Meli, applaudita più volte a scena aperta e accolta da un delirio di consensi al termine della recita. Non sapremmo dire se il carattere stentoreo, declamato della vocalità di entrambi, che rifugge da qualsiasi tipo di mezze voci, sia da imputare al carattere dei ruoli nell’opera verdiana, a una limitazione tecnica da parte dei cantanti stessi o, più probabilmente, al fatto che la scrittura delle due parti, ai limiti delle possibilità tecniche, non lascia spazio a sfumature di sorta in tal senso. Accanto a loro si è ben difeso il baritono Devid Cecconi, anch’egli oggetto di convinti applausi da parte di un pubblico entusiasta e interprete di assoluto rilievo del ruolo. Il consenso finale, oltre ai cantanti, al coro e a Riccardo Chailly, si è esteso anche ai registi, allo scenografo Christian Fenouillat, al costumista Agostino Cavalca e al talento di Christophe Forey, quest’ultimo autore di interessanti giochi di luci e di ombre. Fenouillat ha indovinato le sequenze che ospitavano una grande riproduzione della Cattedrale di Reims, e all’inizio dell’opera le figurazioni che illustravano il convergere del popolo sulla figura di re Carlo. Quest’ultimo risplendeva in un gold-plated totale che faceva temere della sua integrità fisica, accanto a una Giovanna che di dorato aveva solamente la corazza da eroina-guerriera.