di Gianluigi Mattietti
Donaueschingen è una piccola città sul versante orientale della Foresta Nera, dove non succede quasi mai niente. C’è solo una volta l’anno una fiera di cavalli, e ci sono le sorgenti del Danubio, come attrattiva turistica nel parco della Residenza dei principi di Fürstenberg.
Ma per quattro giorni l’anno quella piccola città diventa il punto di ritrovo per appassionati di musica contemporanea, per compositori, interpreti, addetti ai lavori, provenienti da ogni parte del mondo. Si tratta del resto del più antico festival di musica contemporanea, nato nel 1921, inaugurato con l’esecuzione Quartetto op. 16 di Paul Hindemith, che fu a lungo il direttore della rassegna, rinato, dopo gli anni del nazismo e della guerra, grazie anche alla proficua collaborazione con l’Orchestra del Südwestrundfunk (SWR), noto per aver tenuto a battesimo numerosi capolavori della seconda metà del XX secolo. Si è trattato inoltre, quest’anno, dell’edizione del centenario, un’ edizione di lusso, anche più ricca del solito, che si è aperta con l’esecuzione del primo movimento di quello storico quartetto hindemithiano, ed è stata impreziosita dall’esecuzione di Polyphonie X di Pierre Boulez, altro omaggio alla storia del festival, per lo scandalo che suscitò la sua prima a Donaueschingen nel 1951. Poi trenta appuntamenti tra concerti, conferenze, film e istallazioni: tutte prime assolute, come da tradizione.
Il concetto stesso di istallazione è sembrato estendersi oltre i limiti tradizionali, svilupparsi in nuove forme, molto articolate, suggerendo nuove forme di fruizione. Poteva ad esempio investire uno spazio molto ampio, addirittura l’intera città in Donau / Rauschen di Daniel Ott ed Enrico Stolzenburg: i musicisti suonavano (sincronizzati) per le strade, nelle piazze, dai tetti, dalle finestre, trasformando tutta Donaueschingen in una scultura sonora mobile, che la gente seguiva come il pifferaio magico di Hamelin. Si estendeva invece nel tempo Ephémère Enchainé di François Sarhan, una «Konzertinstallation» che occupava tutta la notte, nove ore di spettacolo offerto a un pubblico che poteva sdraiarsi su materassini e cuscini, appisolarsi, dormire, aspettare la colazione servita il mattino, alla fine dello spettacolo. Concepito come un varietà, integrava performance di attori, esecuzioni musicali (con l’Ensemble Phace), innesti elettronici (La Muse en Circuit), filmati, voci preregistrate (di bambini, folle, predicatori), sketch umoristici, aneddoti curiosi, tutto mescolato in un’atmosfera febbrile e sarcastica, e immaginato come un surreale notiziario radiofonico, dove lo stesso Sarhan appariva nel ruolo dello speaker. La stessa idea di esecuzione musicale si estendeva oltre i suoi naturali confini, trasformandosi in un vero e proprio film, in 20:21 Rhythms of History di Johannes Kreidler, compositore tedesco che sembra aver trovato proprio nel cinema, nella animazione e nella motion graphics il mezzo ideale per la sua poetica musicale insieme concettuale e provocatoria. Un mezzo che gli permette di giocare senza limiti sullo scollamento tra gesto e suono, liberando il tempo da ogni concatenazione di causa-effetto, invertendo il rapporto di subordinazione che lo lega al movimento. Sfruttando la collaborazione di cinque musicisti e di una cantante-attrice estroversa come Salome Kammer, Kreidler usava i simboli della notazione musicale come oggetti animati, faceva muovere le note e le onde sonore in uno spazio iperreale, dove tutto diventava possibile ed esilarante: rovesciare una stanza solo muovendo i tasti del pianoforte, sfogliare un album di foto “sonanti”, attraversare strade, deserti, metropoli, spazi siderali invasi da strumenti, sinusoidi, simboli musicali, come inquietanti discariche di suoni.
A Donaueschingen non manca però mai la cara, vecchia orchestra. Anzi per l’edizione del centenario c’erano ben quattro concerti sinfonici. In quello inaugurale, con la SWR Symphonieorchester diretta da Brad Lubman, si sono ascoltati due lavori concertanti, della canadese Annesley Black e della norvegese Maja Ratkje. In Abgefackelte Wackelkontakte della Black, l’orchestra si confrontava con due insoliti solisti, il Lupofono (uno strumento della famiglia degli oboi, una specie di Heckelphon più grave) e un mixer con gli ingressi collegati alle uscite. I due solisti cercavano letteralmente di “fare il verso” l’uno all’latro (una nuova frontiera della “imitazione” in musica!), creando un intreccio di distorsioni e cigolii, suoni acidi e secchi, buffi e capricciosi, che ricordavano i versi di un avvoltoio, di un gufo o le risate di un kookaburra australiano: in questa atmosfera zoologica, i dialoghi inizialmente frammentati, lamentosi, si arricchivano via via di ammiccamenti, tenere rispondenze, e culminavano in un grande crescendo, quasi heavy metal. Più classico e compassato, al confronto, appariva Considering Icarus della Ratkje – il che è tutto dire per una compositrice che sin dai suoi esordi si è fatta notare per lo stile provocatorio, come cantante, performer multi-media, polistrumentista: in questo concerto per trombone e piccola orchestra, tutto procedeva a ondate, con una grande varietà di soluzioni timbriche e con il solista spesso echeggiato dai fiati in orchestra. Molto più interessante, e meglio strutturato, il nuovo pezzo di Beat Furrer, Tableaux: tre schizzi per orchestra, ispirati a dipinti di Max Ernst, fatti di textures sempre cangianti, ma definite con una precisione assoluta, di stratificazioni dagli spessori mutevoli, di espansioni dall’effetto caleidoscopico, di effetti quasi parlanti, sussurranti, ansimanti o urlanti che emergevano da ricche costellazioni armoniche.
Sulla distribuzione degli strumenti nello spazio giocava il nuovo, raffinato pezzo per orchestra del britannico Christian Mason, Somewhere in the distance (lost in the horizon) eseguito dalla neonata Lucerne Festival Contemporary Orchestra, sotto la direzione di Baldur Brönnimann. L’orchestra era distribuita intorno alle ondes martenot (frontalmente un ensemble dominato da quattro flauti bassi, sul retro della sala quattro clarinetti bassi e quattro corni, sui lati della sala violini e viole) e tutti gli strumenti si intrecciavano con le stranianti linee melodiche delle ondes (che avevano una funzione di baricentro acustico e timbrico) e con gli effetti ambientali dell’elettronica (scrosci d’acqua, rintocchi di capane in lontananza), in un avvolgente, ambiguo gioco di sovrapposizioni timbriche. L’orchestra era invece una massa lavica nel concerto per chitarra elettrica di Stefan Prins, intitolato under_current, eseguito da uno specialista come Yaron Deutsch e dall’Orchestra filarmonica del Lussemburgo, diretta da Ilan Volkov. Il pezzo si basava su processi di manipolazione e moltiplicazione del segnale elettrico: il suono del solista, già inviato a vari amplificatori, veniva amplificato anche dall’orchestra («un gigantesco, umano, meta-amplificatore analogico») sfruttando l’uso di vari oggetti (come la carta stagnola sulle corde degli archi) per deformarne il suono, umanizzando così la chitarra elettrica non attraverso la sua tradizionale gestualità (tipica del rock), ma proprio imitandone il suono, gli stilemi, le distorsioni con strumenti acustici.
Il corpo umano, la sua fisiologia, le funzioni cognitive sono oggi spesso al centro dell’interesse di molti compositori: in particolare il cervello umano ha ispirato a Donaueschingen due lavori per orchestra, di Misato Mochizuki e di Enno Poppe. La compositrice giapponese, che si è ispirata al funzionamento del cervello anche in altri lavori recenti (ad esempio nel ciclo Brain per quartetto d’archi), ha concepito l’orchestra di Intrusion come un grande cervello, i singoli strumenti come neuroni. Studiano l’empatia e i meccanismi dell’apprendimento, ha sagomato il pezzo come un processo organico in costante evoluzione, come un crescendo ininterrotto, con piccole cellule reiterate, costanti pulsazioni ritmiche, relazioni osmotiche che passavano dall’orchestra all’elettronica e viceversa, suoni che sembravano cinguettii e che si accumulavano come in una voliera. Hirn (cervello) di Poppe, per 29 ottoni e percussioni, giocava invece sulla perdita di orientamento: la trama dei fiati, ambigua e frenetica, prendeva vita da un gioco di soffi e procedeva come una continua collisione di blocchi accordali con diverse accordature, che creava un effetto straniante e fantastico (molto simile a Rundfunk): un autentico capolavoro.
Tra i lavori per ensemble, presentati a Donauschingen, svettava su tutti Forajzok di Márton Illés, eseguito dal Klangforum. La scrittura strumentale, trattata con una finezza strabiliante, senza ricorrere a tecniche particolari, giocata sempre sugli estremi di tessitura e di dinamica, generava un ordito formicolante, movimentato, sempre cangiante e mai esile, ma sempre denso, succoso, anche nel pianissimo: il suono sembra una sostanza elastica uscita un laboratorio di esperimenti chimici, che veniva sagomata in base a sollecitazioni fisiche, che si dilatava, si raddensava, si assottigliava, evaporava, gocciolava. Nei concerti del Klangforum si sono ammirati anche i nuovi lavori dell’israeliano Yair Klartag e del norvegese Øyvind Torvund. In Akward Dances and Passacaglia, Klartag ha dimostrato ancora una volta di saper scrivere molto bene, di costruire trame ricche di invenzioni e cariche di tensione narrativa, ma senza imprimere un tratto veramente originale ai suoi pezzi. Difetto che non ha invece la musica di Torvund, iconoclasta, piena di arguzia e di humour, che ricombina elementi diversi in un sofisticato gioco di sovrapposizioni, contrasti, sfocamenti, prospettive acustiche paradossali. Plans associava all’esecuzione delle slides di presentazione, disegni infantili fatti a matita, come appunti per musiche utopiche, assurde, «che sfidano le leggi della fisica e il budget artistico»: la successione di questi disegni (che mostravano piccole figurine di musicisti e di animali, paesaggi naturali, progetti di concerti en plein air, l’abbozzo di una composizione per percussioni ed esplosivi, lo schizzo di un iceberg che irrompe in un concerto, l’immagine di una un’istallazione, definita “Nature Orchestra”, fatta di musicisti vivi che suonano all’infinito musiche generate da un computer in stile Wagner-Mahler-Bruckner) era accompagnata da un collage sonoro variopinto, che mimava clacson automobilistici, allarmi, gorgoglii di acqua, echi wagneriani, grandi crescendo sinfonici, suoni sintetici da videogame.
Non meno originale l’approccio compositivo di un altro norvegese, Eivind Buene, che in Personal Best ha usato come materiale lo stesso Trio Accanto che ha eseguito il pezzo: ha esplorato repertorio di questo gruppo e le storie individuali dei singoli musicisti, ha lavorato come un archeologo, o come un etnografo, raccogliendo frammenti delle loro incisioni (che coprono un ampio ventaglio di compositori e stili), registrando racconti autobiografici dei tre musicisti, sostituendo in partitura, le indicazioni degli strumenti con i loro nomi: Marcus (Weiss, sassofono), Chrisitan (Dierstein, percussioni), Nic (Hodges, pianoforte). Tutto era intimamente connesso con la storia personale del trio. Ciascuna delle tre parti in cui era suddiviso il pezzo iniziava con l’improvvisazione di uno dei tre musicisti su un collage, riportato su un vinile, delle loro incisioni (musiche di Vivier, Aperghis, Netti, Saunders, Stockhausen, Finnissy, Xenakis, Boulez), e proseguiva con un trama dei tre strumenti che accompagnava i racconti registrati, con l’aggiunta di un live electronics “d’antan”. Il Trio Accanto ha eseguito anche That Time di Rebecca Saunders, che ha tratto ispirazione dall’omonimo dramma di Beckett, e ha calibrato la scrittura su ogni singolo strumento, articolando sussulti e rilassamenti, giocando sul suono e sui suoi riverberi, sfruttando il massimo contrasto tra gli attacchi in fortissimo e le risonanze espressive, giocando su suoni instabili, con varie gradazioni di rumore. Il gusto della Saunders per le alchimie timbriche emergeva anche in Us Dead Talk Love, eseguito nel concerto dell’ensemble Nikel: il carattere era però decisamente più drammatico, con la voce (della bravissima Noa Frenkel) che seguiva un preciso filo narrativo (su un testo tratto da A Primer for Cadavers di Ed Atkins) muovendosi tra parlato e canto, tra estremi di registro, su una trama strumentale ruvida, scoppiettante, piena di distorsioni. Nello stesso concerto si è fatta notare anche Didem Coskunseven, giovane compositrice e sound artist turca, attiva in Francia, che in Ext.The Woods.Night immaginava di condurre l’ascoltatore attraverso un viaggio notturno, immaginario e inquietante, scandito da bolle armoniche inizialmente molto “ambient”, che via via diventavano tremolanti, instabili, distorte, si “elettrificavano” creando alla fine un effetto psichedelico.
Il gran finale del festival di Donaueschingen è stata l’esecuzione di The Red Death di Francesco Filidei: un oratorio per cinque cantanti solisti, doppio coro orchestra ed elettronica su libretto di Hannah Dübgen ispirato al celebre racconto di Edgar Allan Poe e al Purgatorio di Dante, e immaginato come una passeggiata attraverso il Purgatorio, e insieme un rituale di purificazione. La riflessione sui sette peccati capitali diventava anche una riflessione sulle paure della società di fronte a una pandemia, sull’ingannevole senso di sicurezza che lascia il posto a un sentimento di minaccia latente. La rigorosa architettura musicale, basata su una scala cromatica (come in Giordano Bruno), permetteva di converso un’estrema diversificazione delle scene musicali, a testimonianza dell’abilità del compositore pisano nel sagomare vari tipi e forme di scrittura vocale, nel creare sontuose, siderali pagine corali, nel trattare l’orchestra con una straordinaria duttilità timbrica – e non a caso proprio The Red Death ha vinto il premio dell’orchestra dell’SWR. Il contenuto pareva quello di una Passione, ma la vivacità dei dialoghi, l’eloquio musicale, il ritmo teatrale, la varietà delle situazioni sceniche, sembravano destinare questo lavoro al palcoscenico dell’opera.