Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino avvia il nuovo anno con il capolavoro giovanile di Verdi. Tra la plumbea direzione di Palumbo e la tradizionale regìa di Muscato, trionfa il baritono protagonista ed emerge una buona compagnia di canto
di Francesco Lora
DURANTE IL PASSATO ANNO VERDIANO s’è visto il Nabucco in ogni dove, e ancora Nabucco è stata la prima opera allestita dal Teatro del Maggio Musicale Fiorentino nel 2014: sei recite dal 21 al 31 gennaio, e Teatro Comunale gremito di pubblico come non lo si vedeva da tempo. Si voleva fare ancor più bella la festa? Ecco la prima recita col valente baritono Dalibor Jenis nella parte eponima del re d’Assiria, ed ecco, per le recite del 26 e del 30, un sostituto d’eccezione pronto a raccogliere il testimone: Leo Nucci. Compiuti i settantun anni, sulla sua voce sembra spirare un’eterna primavera: andateli a trovare tra i giovani un timbro più personale e fresco, fiati più agiati e duttili, volume più ampio e importante. Basta questa forma vocale a erigere il personaggio nella sua fiera statura regale; e negli atti III e IV, dove Nabucco ha mente confusa e corpo fiaccato, l’attore sembra ricordarsi del suo feticcio Rigoletto deforme, e trasferire nella Babilonia veterotestamentaria la forza di rivalsa, l’amore paterno e l’anelito alla normalità, là affinati di cento recite in cento recite. Un protagonista commovente, di quest’opera e per il teatro d’opera tutto.
Intorno a Nucci, anche il resto della compagnia ha le sue luci. Si ritrova Anna Pirozzi, ormai divenuta l’Abigaille per antonomasia delle scene italiane: ormai abituati a questo fenomeno del canto, a Firenze ella non ci dà più il fremito della scoperta, come nel marzo scorso al Teatro Regio di Parma, né – con quel gran tonnellaggio vocale – ripete la prodezza del Mi bemolle sopracuto alla fine dell’atto II, come nello scorso ottobre al Teatro Comunale di Bologna; si ascolta però una cura sempre maggiore nella modulazione, nello scioglimento degli abbellimenti e nell’espressione, e l’applauso verso di lei si rinnova con maturato interesse. Una notevole brillantezza timbrica e una rara prestanza di squillo caratterizzano a loro volta il tenore Luciano Ganci, che impersona un Ismaele limpido e scattante, amoroso senza patetismi. Più modesta è la prova degli altri interpreti principali. Se diretto da Riccardo Muti, lo Zaccaria di Riccardo Zanellato si distingue per finezza di fraseggio e sorvegliata forma fisica; ma nell’acustica ingrata del Comunale e non altrettanto pungolato dalla nuova bacchetta, il basso risulta qui sfocato e flebile anziché sacerdotale e granitico. Del pari, la Fenena di Annalisa Stroppa suona garbata, ma senza lasciare ricordo nitido all’ascoltatore.
Lascia un poco interdetti la concertazione di Renato Palumbo, che conosce in lungo e in largo il Nabucco e che consciamente sceglie di darne qui una lettura allentata, ponderosa e plumbea, aggravando la già colossale artiglieria dell’Orchestra del MMF. Altrove, e in particolare nelle strette di fine atto, i tempi si fanno al contrario assai serrati, e danno luogo a un contrasto netto e ardito. Va da sé che un metronomo indugiantissimo attende il Coro del MMF e «Va’, pensiero, sull’ali dorate», dove la parola ‘Sionne’ emerge dal pianissimo con un crescendo monumentale, dipingendo col suono l’immane maestà della città santa e fissando il momento più dotto dell’esecuzione.
Efficace ma non memorabile è invece l’allestimento con regìa di Leo Muscato, scene di Tiziano Santi e costumi di Silvia Aymonino, il quale proviene dal Teatro Lirico di Cagliari e dall’Ente Concerti “Marialisa De Carolis” di Sassari, e che nel 2012 è stato curiosamente insignito del Premio della Critica musicale “Franco Abbiati”. Si assiste in realtà a uno spettacolo di placida e onesta tradizione, dove si obbedisce alla didascalia più che ai rovelli drammaturgici, e dove l’immagine neppure cerca di fissare apici estetici: quelli, da stupore, che un Pier Luigi Pizzi d’annata saprebbe sbozzettare in due e due quattro. Ma non è un gran male: per una volta, pubblico e recensione possono concentrarsi sul lavoro dei musicisti anziché sui capricci d’un regista.
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