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Il thriller di Janácek arriva in laguna

di Giuseppe Pennisi
18 Marzo 2013
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Opera • Cast di alto livello e un Gabriele Ferro applauditissimo portano per la prima volta nel teatro veneziano il Věc Makropulos. La regia di Robert Carsen (scene e costumi di Radu e Miruna Bruzescu) dipinge una Praga kafkiana


di Giuseppe Pennisi


Delle otto opere di Leoš Janácek, Il caso Makropulos è quella che, dopo una lunga attesa, negli ultimi anni più si è vista ed ascoltata in Italia. Un’edizione curata da Luca Ronconi, in versione ritmica italiana, è andata in scena, nell’arco di quindici anni, a Torino, Bologna, Napoli, nel circuito di ‘teatri di tradizione’ dell’Emilia ed in lingua originale alla Scala. La scelta della traduzione ritmica non è un capriccio: come il lavoro teatrale di Karel Čapek , da cui è tratta, l’opera ha la guisa di un serrato giallo giudiziario (la ricerca di un documento risolutivo in una vertenza miliardaria che dura da cento anni), anche se è incentrata essenzialmente su temi etico-filosofici, quali immanenza e trascendenza. L’uso della traduzione ha anche, però, una controindicazione: nella scrittura vocale di Janácek note e parole si plasmano a vicenda sino all’immenso arioso finale; inoltre, le voci sono sorrette da un’orchestra in magico equilibrio tra il melodismo nostalgico slavo e il sinfonismo di Richard Strauss, con influenze di Debussy. In breve, un ininterrotto mormorio, inafferrabile e inclassificabile, e provvisto di temi di assoluta originalità, nonché di delicatezza impressionistica e di calligrafismo sonoro. Quindi, con l’ausilio dei sovrattitoli, il moravo è la lingua in cui una produzione del lavoro dà la resa migliore.

La Fenice è, con La Scala e Firenze, uno dei teatri italiani che più si sono impegnati nel far conoscere Janácek e nel farlo apprezzare come  uno dei maggiori autori di teatro in musica del Novecento. Il caso Makropulos è alla prima esecuzione in laguna, dove arriva in una co-produzione con lo Staatstheater di Norimberga e l’Opéra du Rhin di Strasburgo, che è stata vista anche a Londra e Leeds e probabilmente arriverà anche su altri palcoscenici europei (ed italiani). Prima di parlare dell’allestimento (visto ed ascoltato alla ‘prima’ veneziana il 15 marzo), occorre ricordare la vicenda.

Foto Michele Crosera

All’apparenza siamo alle prese con un dramma poliziesco-giudiziario nella Praga degli anni Venti. Un processo, come si è detto, su una complessa vertenza di successione. Vi si inserisce (proprio mentre sta per scattare la prescrizione) una bellissima, nota  e giovane cantante – Emilia Marty – che tanto sa (e tanti documenti sa trovare) ma che cerca disperatamente un manoscritto in greco. Il dramma di Čapek dura oltre quattro ore ed è farcito di discorsi filosofici. I tre atti di Janácek durano 90 minuti e rendono al  meglio se vengono rappresentati senza intervallo. L’opera in effetti tratta del valore e della durata della vita come esperienza terrena. Emilia Marty ha 327 anni; ha avuto negli oltre tre secoli vari nomi tutti con le iniziali E.M.: suo padre, il negromante cretese Makropulos, aveva predisposto una pozione di lunga vita per l’Imperatore d’Ungheria, lei l’ha provata, è rimasta sempre giovane; ma allo scadere dei giorni in cui si svolge la vicenda deve confezionare la pozione e berla di nuovo  o morire. La ricetta si è smarrita nelle mani di un antenato di coloro che sono stati coinvolti nel maxi-processo. Quindi, la sua ricerca affannosa. Emilia è così bella che una delle controparti nel processo (senza sapere di essere un suo bisnipote) si innamora perdutamente di lei, e che un altro si suicida quando apprende che suo padre (in possesso delle carte in greco antico) dà il documento in cambio di una notte di sesso con lei. Ma, sotto le lenzuola, Emilia è fredda. In 300 anni, i suoi amici, i suoi amanti, le sue persone care sono sparite, mentre lei vagava da paese a paese cambiando nome e nazionalità ma mantenendo sempre le stesse iniziali. Quando, infine, ha il documento, lo cede alla fidanzata (giovane) di uno dei suoi innamorati, che lo rifiuta; così Emilia in pochi istanti invecchia e muore. Tutte le opere di Janácek (compositore molto religioso e vicino più alla cultura russa che a quella tedesca) sono una riflessione sul significato dell’avventura terrena.

La regia di Robert Carsen (e le scene ed i costumi di Radu e Miruna Bruzescu) spostano di qualche anno l’ambientazione dell’azione  dal 1922 agli anni in cui a Praga ha luogo la  ‘prima’ della Turandot di Puccini (presumibilmente il 1929-30). Una Praga kafkiana in cui si dipana il thriller ed in cui Emilia Marty è, al secondo atto, applauditissima protagonista dell’ultima opera pucciniana. Nella breve introduzione musicale, la abbiamo velocemente vista vestire costumi di opera barocca, di tragédie lyrique, di romanticismo tedesco ed anche di Violetta in Traviata. Non solo ‘l’opera nell’opera’ ma un modo di mostrare come in trecento anni E.M. abbia avuto modo di affinare continuamente le proprie qualità vocali, perdendo, però, progressivamente i propri sentimenti umani, poichè amanti, mariti, figli, amici avevano vite di un decorso normale.

Foto Michele Crosera
Foto Michele Crosera

E.M. è Ángeles Blanca Gulin, uno soprano lirico che ha iniziato la propria carriera come soprano di coloratura, perfetta per il repertorio barocco (fu una straordinaria Poppea nell’ Incoronazione  di Monteverdi in un’edizione curata da Ottavio Dantone con Anna Caterina Antonacci nel ruolo di Nerone). Negli anni si è ispessita la voce, ma non è mai diventata un soprano drammatico. Può sembrare una notazione di dettaglio, ma Janácek ha pensato l’opera per un soprano lirico con una tessitura che spesso si sposta sull’acuto (do dell’arioso finale a parte). La tendenza è, tuttavia, quella di affidare il ruolo a soprani drammatici (per esempio Raina Kabaivanska nell’edizione ronconiana degli anni Novanta) e Angela Denoke (alla Scala, a Firenze, a Salisburgo ed in molti altri teatri tedeschi). Il ritorno alla vocalità originaria è importante perché il ruolo del soprano lirico E.M. deve essere sensuale ed erotico nell’accalappiare gli uomini, che potenzialmente potrebbero avere il documento Makropulos (pur se ‘ fredda come morta’ – dice uno dei protagonisti – quando è con loro sotto le coperte. Questi è Jaroslav Prus, un anziano contendente nel maxi-processo, impersonato da un veterano del ruolo, Martin Bárta. Il resto della compagnia di canto è di alto livello. Spiccano due giovani tenori: Enrico Casari e Ladislav Elgr. Ne risentiremo parlare (se non se li portano via , con contratti a lungo termine, i teatri della Germania, dell’Austria e del resto dell’Europa centrale).

La scrittura orchestrale di Janácek è un bellissimo mosaico di frammenti di ardua concertazione. Gabriele Ferro, applauditissimo, le ha dato una patina lirico-latina che è piaciuta al pubblico.

© Riproduzione riservata

Tags: Ángeles Blanca GulinEnrico CasariGabriele FerroIl caso MakropulosKarel ČapekLadislav ElgrLeóš JanáčekMichael RadulescuMiruna BruzescuOpéra du Rhin di StrasburgoRobert CarsenStaatstheater di NorimbergaTeatro La Fenice
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Giuseppe Pennisi

Giuseppe Pennisi

Nato a Roma nel 1942, ha avuto una prima carriera negli Usa (Banca mondiale) sino alla metà degli Anni Ottanta. Rientrato in Italia è stato Dirigente Generale ai Ministeri del Bilancio e del Lavoro e docente di economia al Bologna Center della Johns Hopkins University e della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione di cui ha coordinato il programma economico dal 1995 al 2008. Frequente collaboratore di quotidiani e periodici, scrive regolarmente per Avvenire. È Consigliere del Cnel in quanto esperto nominato dal Presidente della Repubblica ed insegna alla Università Europea di Roma. Ha pubblicato una ventina di libri di economia e finanza in Italia, Usa, Gran Bretagna e Germania. Culture di musica classica, è stato Vice Presidente del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto e critico musicale del settimanale Il Domenicale dal 2002 al 2009; attualmente collabora regolarmente in materia di lirica al settimanale Milano Finanza ed al quotidiano britannico Music & Vision.

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