Il giovane direttore slovacco ha diretto la Nona all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
di Mario Leone
N ella programmazione di un teatro la presenza di un direttore d’orchestra che ha diretto in carriera tutte le più importanti istituzioni orchestrali e che a quasi novant’anni continua a riservare esecuzioni splendide e originali, rappresenta evento imperdibile e di grande richiamo per il pubblico. Quando poi questo direttore è chiamato a dirigere la “Nona” per antonomasia l’evento diventa eccezionale. Stiamo parlando di Georges Prêtre e Ludwig van Beethoven, e di un concerto che era inserito nella stagione concertistica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con ben quattro repliche. Potete capire quindi il “pizzico” di delusione che è potuto sorgere negli abbonati e nel pubblico quando è stata diffusa la notizia che il direttore francese non avrebbe potuto dirigere per improvvisi problemi di salute. Al suo posto un nome che ai molti (anche tra gli addetti ai lavori) è poco conosciuto: Juraj Valčhua, classe ’76 d’origine slovacca. Non vorremmo essere fraintesi, Valčhua è direttore stabile dal 2009 dell’Orchestra Nazionale della RAI di Torino, vanta numerose collaborazioni con illustri istituzioni lirico-sinfoniche e il suo repertorio é di tutto rispetto; infatti ha conquistato il pubblico con un’esecuzione veemente, sanguigna, in una tensione crescente culminata con l’entrata del coro nel quarto movimento della Nona. Una sinfonia che definiremmo ciclica nell’interpretazione, poiché ogni movimento é in rapporto con gli altri nella scelta dei tempi e delle dinamiche, quest’ultime esasperate nei contrasti e nella forza. Che coraggio questo giovane: il coraggio d’idee precise e chiare, il coraggio di una conoscenza approfondita della partitura, l’urgenza espressiva di chi ha da dire qualcosa.
Nell’attacco del primo movimento Valčhua valorizza il carattere maestoso ed enigmatico della scrittura conducendoci nel giro di poche battute dal nulla al cataclisma. La conduzione delle dinamiche è sempre molto netta e il passo che Valchua impone a tutto il movimento é incalzante. Marcate in tutta la sinfonia le cellule ritmiche che diventano motore vitale nel dipanarsi della composizione. Così si giunge al secondo movimento. Nello Scherzo il direttore stacca un tempo serrato ricordando le ultime interpretazioni di Claudio Abbado con i Berliner, sottolineando il carattere nervoso e asciutto. Lo stesso Valčhua non smette di chiedere sempre più suono e “arco”. L’effetto prodigioso e dirompente permane anche nella parte centrale dello Scherzo, dove con grande fedeltà alla partitura Valčhua elimina ogni rischio di visione bucolica, tipicamente haydniana.
Parlando dell’Adagio della Nona Toscanini affermava che “bisognerebbe dirigerlo in ginocchio”. Ecco il direttore di Bratislava si è posto così di fronte a questo movimento. Pochissimi movimenti con il braccio destro, tanti sguardi all’orchestra e un cantabile morbido, raffinato e penetrante, hanno aperto squarci di una luce avvolgente. Terminato il movimento centrale senza alcuna interruzione dirompe l’orchestra. Ecco, quando già Valčhua sembra aver detto quasi tutto, si “inventa” un quarto movimento dove il carattere teatrale insito in questa sezione, è portato a massimi termini. L’orchestra si fa personaggio, gli strumenti dialogano, si interrogano in una fase preparatoria all’ingresso della vera voce, quella splendida e cristallina del Basso Florian Boesch che dirompe in sala nel silenzio generale. Valčhua riserva grande attenzione alle parti vocali rendendole assolute protagoniste. L’orchestra quasi si ritrae in un”gioco” di luci e ombre, entrate e uscite, realizzando il progetto più vero della IX Sinfonia: un’immensa cattedrale di suoni che dalle viscere della terra si innalza al cielo. Perfetto anche il coro (sapientemente preparato da Ciro Visco), pronto a tutte le indicazioni del Direttore, equilibrato tra le parti, con un’ottima pronuncia del tedesco.
E così quasi senza accorgersene si ritorna in ginocchio come consigliava Toscanini, nell’Adagio ma non troppo, ma divoto, dove i legni in dialogo con viole e violoncelli fanno da preambolo alla volata finale. Dopo solo applausi, quasi quindici per l’esattezza e la certezza di aver ascoltato un direttore dal quale è lecito aspettarsi grandi cose.
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