di Stefano Cascioli foto © Julia Wesley
C’era grande attesa per il concerto di Julia Fischer a Udine, secondo appuntamento della ricchissima stagione friulana. Non solo per la fama che ha raggiunto negli ultimi anni (è tra le violiniste più acclamate del momento), ma anche per il programma proposto. Destava interesse, infatti, l’interpretazione del concerto di Kačaturjan, ad un decennio di distanza dalla storica incisione che effettuò con Yakov Kreizberg e l’orchestra nazionale russa. All’epoca era poco più che ventenne, ma la verve e l’estro originari sembrano rimasti intatti.
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Cavata superba, varietà di fraseggio, gamma di colori vastissima, pulizia di suono, musicalità nei respiri, intonazione impeccabile. Fischer ha incantato l’uditorio con una performance strepitosa, dal vigoroso attacco in quarta corda, così possente e granitico, sino ai virtuosismi finali del Rondò conclusivo. Magnifica anche la Dresdner Philharmonie che, guidata dal direttore principale Michael Sanderling, ha partecipato intensamente all’esecuzione del concerto, costruendo con grande sapienza l’accompagnamento.
Non è stato, però, quel tappeto armonico, apatico ed asettico, che troppo spesso si sente fare dall’orchestra nei concerti solistici. Questa esecuzione, oltre che alla straordinaria precisione, ha saputo risaltare le numerose sfumature della partitura, dagli sfasamenti ritmici, ai controcanti dei legni (quante volte il clarinetto dialoga col violino solista!). Il tutto ha messo in luce la straordinaria orchestrazione del compositore georgiano, ma anche un aspetto del concerto che spesso passa inosservato, ossia la fitta interazione tra solista e orchestra, e l’alchimia trovata da Fischer e Sanderling ha fatto sì che le intenzioni musicali si fondessero in un’unica direzione, creando un amalgama speciale. Chapeau, anche per il bis che Julia ha concesso: il finale, spettacolare, della sonata per violino solo di Hindemith.
La seconda parte del concerto prevedeva la Settima di Beethoven, ed era spontaneo domandarsi se l’orchestra, tanto densa e massiccia nel concerto, potesse rendere l’antitetica levità della raggiante Settima. Il risultato è stato sconvolgente. La compagine tedesca si è letteralmente trasformata, cambiando radicalmente il modo di suonare. Nonostante la mole degli archi fosse rimasta la stessa, la pulizia dei fraseggi e la mancanza di vibrato ha risaltato la dimensione “cameristica” del capolavoro beethoveniano. Una duttilità, quella dei filarmonici di Dresda, che ha pochi paragoni nel panorama internazionale.
Merito soprattutto di Sanderling, che ha dato una lettura molto personale della sinfonia. Gli equilibri tra fiati ed archi era ottimale, il perenne utilizzo delle bacchette dure per i timpani garantiva nitidezza sonora, inoltre la costante scelta di tempi comodi ha conferito un carattere solare ai movimenti in maggiore e uno sguardo malinconico al secondo tempo (l’inizio di soli archi aveva una purezza quasi organistica). Ottimo l’amalgama dei legni (qualche imperfezione durante la wagneriana Ouverture del Rienzi che ha aperto il concerto è più che giustificabile), e la cura del fraseggio, sia di articolazione che di direzione musicale, era davvero maniacale.
Ha imparato la lezione di Harnoncourt, il figlio di Kurt Sanderling. Speriamo che la porti avanti, e che la rilegga con intelligenza ed estro, come ci ha dimostrato in questa brillante Settima.
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