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Appunti per un incontro de I giovedì musicali
di Francesco Gala
R iprendiamo la vicenda laddove l’abbiamo interrotta. Abbiamo lasciato la ninfa Calisto rinnegata da Diana, per essersi concessa alle voglie Giove metamorfosato nella dea silvestre (su suggerimento di Mercurio). Endimione è sempre innamorato di Diana ed è stato finalmente baciato da lei in sembianza di Luna, risplendente sulla cima del monte Liceo. L’abboccamento fra il pastore e la dea è stato spiato dal Satirino che ha commentato la mancata fede virginale del nume dei boschi con un’affermazione sarcastica che starebbe bene sulla bocca del Don Alfonso mozartiano: «Chi crede a femmina nell’acque semina». A questo punto, come in ogni commedia degli equivoci che si rispetti, non può che precipitare in scena – sul più bello – la moglie gelosa: Giunone. La quale dichiara in un breve monologo: «Stupri novelli a sussurrare intesi. / Abbandonata la celeste corte, / ignoto qui dimora il mio consorte, / chiuso in stranieri, ed indecenti arnesi». Ella è, dunque, già informata di tutto. Non le resta che imbattersi, per caso, in Calisto, sempre addolorata per la forzata separazione dall’amata Diana. Giunone domanda alla ninfa la ragione del suo pianto ed è sufficiente che Calisto accenni all’«antro dilettoso» nel quale è stata condotta, perché la consorte gelosa abbia conferma di quello che cerca: la giovane è certo vittima dell’infedele marito Giove, che ha assunto sembianze femminili per possedere la vergine.
In questo punto entra in scena Giove (metamorfosato in Diana), sempre scortato dal fedele Mercurio ed appagato dall’incontro sessuale consumato con l’ignara Calisto. La quale, credendolo Diana, vuole accertarsi che la dea sia ancora, incomprensibilmente, in collera con lei; il tutto mentre Giunone si trae un momento in disparte per osservare, rabbiosa, la scena. Un situazione teatrale che oggi saremmo abituati a concepire organizzata nella forma di un terzetto o magari di un quartetto (vista la presenza di Mercurio). Nel teatro di Cavalli, invece, siamo ancora lontani da queste forme operistiche. Eppure il compositore è capace di creare una dialettica anche musicale tra i personaggi in scena. Un elegante disegno degli archi possiede un tratto furbesco, lo stesso con il quale Giove si avvicina a Calisto. Poi gli strumenti s’intorbidano con languore intorno ai versi dei due amanti (o meglio delle due amanti! Giove-Diana e Calisto), mentre Giunone schiuma di rabbia e gelosia. La falsa Diana rinnova la profferta alla ninfa che, entusiasta, dichiara di non volerle neppure domandare perché sia passata dal rifiuto all’abbraccio, in così poco tempo. È interessante notare come, nell’imbarazzata risposta di Mercurio incalzato da Giunone, Cavalli abbia impiegato l’organo (strumento divino e metafisico per eccellenza) per raccontare in musica una bugia: quella che Giove sia ritornato «dell’Olimpo agl’alti nidi» dopo aver ristorato la Terra.
Come tutti i personaggi divini, Giunone si allontana di scena accompagnata da effetti prodotti dalla macchina del vento e dal tuonare dei timpani; non prima, però, di aver rimproverato al marito – in modo piuttosto esplicito – il «certo dolce che» sperimentato da Calisto grazie all’inganno di Giove.
A questo punto, torniamo ad occuparci dell’altro mortale che popola la selva: il pastore Endimione, innamorato di Diana, al colmo della gioia per averla baciata, baciando il cielo. Il personaggio si ripresenta sulla scena con un’aria che, a tutti gli effetti, è un’aria col da capo. Si apprezza il sapore pre-händeliano del suo tema, languido e pastorale. Proprio a Cavalli si ascrive il merito di aver individuato e consolidato gradualmente la forma di quella che, tra il 1630 ed il 1650, era divenuta la rappresentazione musicale di maggior interesse per il pubblico veneziano aristocratico e borghese, presto presa a modello dai maggiori teatri italiani ed europei. E, sempre al compositore, spetta il vanto di aver conferito alle arie, dunque ai momenti solistici, una struttura funzionale, una forma più elegante e accurata nei dettagli timbrici e ritmici.
Ora siamo all’apice dell’equivoco e della comicità. Endimione non impiega neppure un secondo a riconoscere in Giove, sempre metamorfosato in Diana, l’oggetto del proprio amore e la situazione si rinnova, restando sempre omosessuale ma con segno opposto; il corteggiamento non è più tra due donne (Diana-Giove e Calisto) ma fra due uomini (Giove-Diana ed Endimione). Anche il dio infedele ha modo di scoprire che la propria figlia, la dea vergine, possiede amanti. E Mercurio, che per un momento Endimione scambia per un proprio rivale, rivolge a Giove versi gustosissimi: «Questi falsi sembianti, / con gl’arnesi mentiti / signor deponi, che di vaghe invece / troverai di mariti». A complicare la situazione, entra in scena un vero rivale, il dio Pane, da tempo trascurato da Diana e pertanto furibondo. È scortato dal Satirino e da Silvano (le altre divinità boschive) e minaccia di morte il povero Endimione.
Un termine prezioso, che leggiamo sul libretto, ci invita ad una precisazione. Trigemina è un ennesimo epiteto di Diana. Ecate si presentava, infatti, sotto tre differenti forme: Diana sulla terra, Luna in cielo e Proserpina agli inferi. Sulla scena, dunque, tutti gli uomini si contendono una falsa donna.
La vicenda di Endimione prosegue; prima con Pan che lo farà legare ad un acero e malmenare e, poi, con la liberazione da parte di Diana, che rinnoverà il proprio voto di verginità dichiarandosi disposta a riempire ogni notte di baci il pastore, il quale si accontenta felice sulla cima del monte.
Abbiamo già ricordato che i versi scritti per Linfea (la libidinosa ninfa di Diana), per Pan e il suo corteggio sono versi dattilici; metrica che, dal Cinquecento, era associata alle divinità silvestri ma anche alla lotta, all’odio e all’inferiorità sociale. Così Faustini associa Pan e i suoi alla servitù, piuttosto che ai semidei, allontanandosi nettamente dai modelli arcadici che imperavano all’epoca. È dunque una visione grottesca del mondo arcadico, laddove, fra gli emblemi di bassezza, enumeriamo anche Linfea (un tenore, per giocare ancora una volta coi generi sessuali), sempre in cerca di qualcuno che le faccia infrangere il voto di castità. Ella torna in scena a conclusione di questo atto secondo con un rondò, un brano di immediata e semplice cantabilità. Ad ascoltarla c’è il Satirino, suo corteggiatore, sempre da lei rifiutato che decide però, finalmente, di passare alle maniere forti con l’aiuto di due satiri. La didascalia del libretto, a conclusione della scena, recita così: Alle voci del Satirino, escono dalla foresta due Satiri, ed a quelle di Linfea, quattro Ninfe armate di dardi, quali con attitudini di voler ferire le semibestie, e questi di schernirsi da ferri minacciosi, figurano un ballo, il cui fine è la ritirata de’ Satiri. Dunque, come l’atto primo si era concluso con un ballo di sei orsi, anche qui – a conclusione del secondo – è prevista un’azione coreografica.
Quando il sipario si apre sull’atto terzo la situazione drammatica ricorda molto da vicino quella che troviamo al principio dell’atto quinto ed ultimo dell’Orfeo di Monteverdi. Là Orfeo, che ha perduto per sempre Euridice, piange solitario la propria condizione e gli fa eco la Eco.
Orfeo
Questi i campi di Tracia, e questo è il loco
dove passommi il core
per l’amara novella il mio dolore.
Poiché non ho più spene
di ricovrar pregando,
il perduto mio bene,
che poss’io più se non volgermi a voi,
selve soavi, un tempo
conforto ai miei martir, mentre a dio piacque
di farvi per pietà meco languire
al mio languire?
Voi vi doleste, o monti, e lagrimaste
voi, sassi, al dipartir del nostro sole,
ed io con voi lagrimerò mai sempre,
e mai sempre dorròmmi, ahi doglia, ahi pianto!
Eco
Ahi pianto.
Orfeo
Cortese Eco amorosa,
che sconsolata sei,
e consolar mi vuoi ne’ dolor miei,
benché queste mie luci
sien già per lagrimar fatte due fonti,
in così grave mia fiera sventura
non ho pianto però tanto che basti
(Orfeo, atto V, scena prima)
Calisto si trova presso le fonti del Ladone, dove attende invano l’arrivo della sua amata Diana. Là, in Monteverdi, la Eco è una voce che in lontananza risponde al verso di Orfeo. Qui, quarantaquattro anni dopo, questo ormai frustro espediente (un luogo teatrale riconoscibilissimo per il pubblico dell’epoca) diventa compiutamente musicale, perché la Eco è un violino che ripete il canto della protagonista. La forma nella quale è organizzato il materiale musicale è già per noi familiare: un recitativo e un’aria bipartita.
Giunge Giunone per punire l’innocente Calisto ed è scortata dalle Furie, alle quali Cavalli affida un intervento dal carattere stregonesco e quasi tribale.
La punizione di Calisto è esemplare; viene trasformata in orsa cosicché Giove non la trovi mai più. Ma il dio (smessi i panni di Diana) appare in tutto il suo fulgore e le dichiara il proprio amore predicendole che – non potendo mutare ciò che Giunone ha fatto scrivere nel libro del Destino – passerà la vita terrena come orsa; ma, giunta al termine dell’esistenza, ascenderà al cielo. Il mito vuole che lo faccia in compagnia del figlio che porta in grembo, l’una diventando la costellazione dell’Orsa Maggiore e l’altro dell’Orsa Minore. Per farle pregustare la meta celeste, Giove la conduce per un momento tra le stelle. La straordinaria scena finale dell’atto terzo (nell’Empireo) completa il movimento costruito per gradi in precedenza. Dopo il coronamento del desiderio della protagonista, un coro di menti celesti sanziona, alla fine dell’opera, la futura ultima metamorfosi di Calisto («quassù goderai | vestita di rai») e finalmente compone i precedenti movimenti ascensionali in un rinnovato equilibrio, già sancito al principio, quasi a chiudere in una cornice il tutto. Non dimentichiamo, infatti, che il Prologo si svolge nell’antro dell’Eternità, dove sono presenti tre personificazioni: la Natura, l’Eternità, il Destino.
Il Destino sale all’antro dell’Eternità per pregare Eternità e Natura di rendere eterna Calisto, e di permettere che – in forma di nuova costellazione – venga ad adornare il firmamento.
Dunque il Prologo si situa, limitatamente ai contenuti, alla fine della storia rappresentata nel libretto, al momento della definitiva metamorfosi di Calisto. «Calisto alle stelle» cantano a tre Destino, Natura ed Eternità. Faustini e Cavalli hanno così eretto una vera e propria cornice metafisica dell’opera, che incomincia con il Prologo per concludersi con l’Epilogo in cielo.
Il fattore straordinario che corona l’intento drammaturgico di Faustini e che lo realizza concretamente è dato dalla musica di Cavalli. Il compositore, infatti, è in ogni momento sollecito nel rimarcare le tensioni cinetiche descritte dai personaggi con procedimenti armonici precisi e spesso iterati; la salita, ad esempio, è sempre realizzata in musica con uno svolazzo di agilità che tende all’acuto. Quindi, metamorfosi astrologica e tensione dell’ascesa diventano strutture musicali evidenti, in grado di costituire la cifra di tutta La Calisto. È però una cornice metafisica, ascensionale, che si fatica a definire “spirituale” perché il compositore di musica tanto erotica e sensuale non sembra tirarsi indietro neppure al termine dell’opera, quando commenta la mistica salita al cielo. Ci troviamo, infatti, di fronte ad un’elevazione che coincide con un delirio amoroso. Con Calisto, Giove intreccia un ultimo struggente ed eroticissimo duetto d’amore; quello nel cui abbraccio Gian Lorenzo Bernini ha stretto l’una all’altra certe sue statue.
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