di Cesare Galla
Tranne poche eccezioni del tutto occasionali (come alla Scala nel 2004 per L’Europa riconosciuta), negli ultimi anni la bandiera di Antonio Salieri come operista è stata tenuta alta soprattutto dalla sua città natale, Legnago. Con molte difficoltà ma anche con tenacia, nella mai ammainata convinzione che è necessario evitare di confinare l’arte di questo compositore agli studi musicologici. Se le precedenti due produzioni realizzate nel centro della Bassa veronese avevano visto la collaborazione con la vicina Verona, questa volta la Fondazione intitolata al compositore legnaghese si è rivolta altrove. Un po’ per necessità (all’Arena la crisi è tutt’altro che archiviata), molto perché l’ampliamento dell’orizzonte esecutivo oltre la dimensione locale è la condizione primaria per qualsiasi seria rivalutazione. La recentissima prima rappresentazione in tempi moderni de La scuola de’ gelosi – sostenuta finanziariamente dalla Fondazione Cariverona – avrà quindi una vera e propria circuitazione in sedi diverse dopo il debutto a Legnago: in Veneto (Belluno, teatro Ristori di Verona) ma anche a Jesi, a Chieti e a Firenze (teatro Goldoni). In totale, grazie a questa accorta politica di ampie sinergie produttive, le repliche saranno 14: probabilmente mai un lavoro di Salieri è stato così intensivamente proposto ai nostri giorni.
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La scuola de’ gelosi, su libretto di Caterino Mazzolà (bellunese di Longarone), conobbe nel ventennio seguito al suo debutto (dicembre 1778, teatro San Moisè a Venezia) una fortuna senza eguali fra le opere di Salieri, quanto meno nel genere buffo. Prima di un silenzio durato oltre due secoli, fu rappresentata intensivamente in Italia e in varie città europee, fino ad assommare una cinquantina di edizioni. Per la più importante di esse, avvenuta nel 1783 a Vienna al cospetto dell’imperatore e di tutta la corte, il musicista rimise mano alla partitura, irrobustendo lo strumentale con strumenti a fiato non previsti nell’originale e scrivendo un paio di arie nuove. Il testo fu affidato all’astro nascente del teatro musicale viennese, Lorenzo Da Ponte, del resto buon amico di Mazzolà, conosciuto a Venezia proprio quando veniva alla luce questo dramma giocoso. È questa la versione secondo cui è stata proposta la riesumazione, basata sulla trascrizione dell’autografo (conservato a Vienna) e non su una vera e propria edizione critica.
Il soggetto è insieme salace e “politicamente corretto”, per vari aspetti una sorta di archetipo buonista del grande capolavoro di Mozart e Da Ponte, Così fan tutte, il cui sottotitolo forse non a caso riecheggia il precedente: La scuola degli amanti. Anche nell’opera di Salieri assistiamo all’incrocio e alle schermaglie amorose di due coppie, una nobile e una borghese, ciascuna delle quali presenta un coniuge oppresso dalla gelosia e un altro ansioso di vivere liberamente. Anche qui (oltre alle immancabili figure dei servi) c’è la figura di un saggio che in certo modo conduce le danze e all’inizio sembra cinico abbastanza per ipotizzare una scommessa con il conte sulla sua possibilità di sedurre la moglie dell’altro, ma poi finisce per diventare un “deus ex machina” che persegue i buoni sentimenti e lavora alacremente perché tutto si sistemi secondo “ordine costituito”.
Mentre in Mozart e Da Ponte solo l’oblio può far superare l’amara disillusione sulla natura dell’animo umano, le cui imperfezioni sono messe in luce con inesorabile scetticismo, in Salieri e Mazzolà i buoni sentimenti prevalgono, e il principale di essi è la fedeltà coniugale, alla quale il finale dell’opera scioglie un vero e proprio inno. Non prima, però, che tutti i protagonisti si siano trovati coinvolti in una scena di equivoci e fraintendimenti in giardino, fra nascondini e ingannevoli effetti d’eco, che a sua volta in certo modo richiama un altro grande finale d’opera, il quarto atto delle Nozze di Figaro.
Dal punto di vista musicale, La scuola de’ gelosi, per quanto scritta da un Salieri non ancora trentenne, è già in molti aspetti allineata con le nuove tendenze formali dell’opera buffa. Lo testimoniano i due corposi finali d’atto, a pieno titolo aderenti alla poetica delineata in un celebre passo delle Memorie di Da Ponte, dove sono definiti “piccioli drammi in sé”, con un notevole elemento di inventiva in chiave grottesca nel primo, ambientato nientemeno che in un manicomio, dove i protagonisti si recano per vedere l’effetto della gelosia sulla psiche umana. Al centro del secondo atto campeggia anche un bellissimo quintetto, di grande varietà drammaturgica, vocale e strumentale, non a caso molto ammirato dai contemporanei (Goethe in primis), mentre è ancora piuttosto limitato il ricorso ai numeri d’insieme (duetti, terzetti, concertati diversi). Come segnale di una tradizione ormai superata, infatti, abbondano Arie di evidente derivazione settecentesca, che “congelano” l’azione più che farla progredire. In ogni caso, il linguaggio è elegante, efficace, molto più semplice negli accompagnamenti di quanto non siamo abituati a sentire in Mozart, però mai davvero banale. E l’opera nell’insieme funziona egregiamente.
Lo ha dimostrato al teatro Salieri di Legnago, dov’è stata accolta da un grandissimo successo. Merito della direzione musicale di Giovanni Battista Rigon, improntata a una leggerezza di grande risalto stilistico, con tempi frastagliati, sfumature dinamiche sempre ben delineate nel gioco strumentale dell’orchestra dei Virtuosi Italiani, tempi agili, pronti a scatenare il burlesco ma anche a sottolineare l’abbandono sentimentale. Da specialista mozartiano, poi, nei recitativi Rigon si concede e ci concede, essendo impegnato anche come “maestro al cembalo”, una gustosa serie di fuggevoli quanto intriganti citazioni di Amadé, dalla Marcia alla turca all’aria di Don Ottavio nel Don Giovanni, senza trascurare celebri passi del Flauto magico, sempre agganciandosi alla parola, alla suggestione del testo di Mazzolà, sempre ben rifinito e moltogodibile.
Compagnia di canto giovanissima e multinazionale. Due interpreti sono addirittura appena ventenni: si tratta del soprano Francesca Longari – contessa dalla buona linea vocale, anche se con qualche tensione di troppo in acuto nella grande Aria dapontiana del secondo atto – e di Manuel Amati, che ha dato fraseggio fresco e puntuale al personaggio del tenente, il saggio della situazione. Fra gli altri, da sottolineare la prova del baritono coreano Benjamin Cho nella parte del marito geloso Blasio, buona per timbro, presenza e proprietà di fraseggio e del soprano Eleonora Bellocci, la di lui moglie, molto spigliata e di interessante colore vocale. Nella parte del conte si è proposto il tenore congolese Patrick Kabongo, voce piccola e talora fin troppo sbiancata; in quella dei servi, con bella verve, il baritono cinese Qianming Dou e il mezzosoprano brasiliano Ana Victoria Pitts.
Il regista Italo Nunziata firma uno spettacolo essenziale ma non per questo povero, caratterizzato dai pannelli disegnati, scorrevoli a vista, ideati dallo scenografo Andrea Belli e dai curiosi costumi di Valeria Donata Bettella, che mettono insieme il taglio del primo Novecento (l’epoca in cui la vicenda viene collocata) con i colori e le fantasiose decorazioni del Settecento. C’è molto dinamismo in scena, nei movimenti, nei gesti, negli “a parte”, ma senza le inutili esagerazioni cinetiche che fanno il verso alla musica. Il risultato è una sottolineatura divertita e coinvolgente della drammaturgia di Mazzolà e Salieri, grimaldello ideale per scoprire un teatro musicale che meriterebbe davvero maggiore attenzione.
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