Al Regio grande musica dall’Est europeo. Direttore e solista nel Concerto per violoncello di Dvořák e la Messa Glagolitica di Janáček
di Attilio Piovano
Assioma n° 1: il Concerto per violoncello op. 104 di Dvořák è un capolavoro assoluto. Assioma n° 2: il Concerto op. 104 per definizione è IL CONCERTO per violoncello, non ci son dubbi. Postulato n° 1: tutti gli altri gli sono nettamente inferiori, a partire da quello di Schumann (solo quello di Elgar, forse, è degno di stargli accanto). Postulato n° 2: Mario Brunello è uno dei massimi interpreti oggi sulle scene internazionali. Deduzione (più che ovvia): la serata di venerdì 22 gennaio, al Regio di Torino, per la serie dei Concerti 2015-16 della Fondazione Lirica torinese si presentava sotto i migliori auspici.
E infatti le attese non sono andate deluse. Un direttore di lusso, Jan Latham-Koenig, grande esperto di slavi e dintorni, un solista di rara sensibilità (oltre che dalla tecnica infallibile), un’orchestra in buona forma e, cosa che non guasta, una sala gremita. Sicché le emozioni non sono mancate: già dinanzi alle esuberanze ritmiche del primo tempo (quanta delizia, poi, e quanto charme nell’affrontare le pieghe intimiste della partitura, a partire dal secondo tema teneramente affettuoso, tutto effusioni liriche e, nel contempo, trattenute e pudiche reticenze amorose).
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Poi la poesia un poco frale e malinconica dell’Adagio centrale che ha goduto di un incredibile lavoro di cesello da parte del direttore e soprattutto da parte di Brunello, quindi le incandescenze del Finale e le sonorità altisonanti, senza peraltro dimenticare le deliziose rarefazioni che anche qui abbondano. Insomma un’esecuzione da manuale cui Brunello, come suo solito, ha fatto seguire qualcosa di inatteso (in luogo del sublime Bach che la maggioranza dei violoncellisti propone). E allora ecco le seduzioni jazzistiche e le sospirose frasi blues di Unlocked di Judith Weir, una pagina che Brunello suona spesso con gusto e soddisfazione del pubblico (per chi volesse risentirla sul web la si trova facilmente).
Ma il piatto forte della serata era l’esecuzione della sublime e toccante Messa Glagolitica per soli coro, organo e orchestra programmata entro l’ampio ‘progetto Janáček’ che il Regio ha avviato con La piccola volpe astuta diretta in questi giorni proprio da Latham-Koenig, progetto destinato a protrarsi negli anni, con vari e rilevanti titoli in cartellone. Un pool di voci soliste di ottimo livello è stato convocato ad hoc, e si trattava ovviamente di cantanti madrelingua ceca, e come potrebbe essere altrimenti: è pressoché impossibile infatti per cantanti non di madrelingua interpretare con souplesse e sicurezza questo capolavoro ed entrare nelle pieghe delle partitura dalle mille insidie che il testo presenta, e dunque Adriana Kohútková (soprano), Eliška Weissová (mezzosoprano), il tenore Aleksei Tatarintsev ed il basso Vitaly Efanov. I quattro, pur con sfumature diverse (e con qualche lieve squilibrio) hanno ben disimpegnato le varie parti solistiche della Messa (in una improbabile classifica metterei in primo luogo le voci femminili, specie il soprano, poi quelle maschili).
Molto, ma davvero molto bene il coro istruito da Claudio Fenoglio: dietro dev’esserci stato un lavoro egregio di studio e approfondimento della partitura, e il risultato si è sentito e il pubblico lo ha grandemente apprezzato, applaudendo a lungo questa superba pagina sinfonico corale che a Torino mancava da parecchio (la si era ascoltata per Settembre Musica nel 1979, poi alla Rai nel 1991 e da allora mai più) pagina che si apre e si chiude con due momenti orchestrali, una fresca Introduzione, variegata e ritmicamente screziata, nonché dai bellissimi colori armonico timbrici, e si chiude con una sorta di festoso postludio (curiosamente indicato quale Intrada).
Se il Kyrie si apre in un clima cupo e irrequieto con il coro in primo piano ecco che il Gloria è uno dei tratti più sfolgoranti ed anche spettacolari, innervato di contrappunto, ma senza nulla di accademico, tutto è genuino, tutto in presa diretta, con ritmi che paiono alimentarsi al folklore slavo. Il Credo prosegue spedito nelle sue varie sezioni, alternando tratti quasi bucolici ad altri assertivi, a momenti fin drammatici e annovera financo passi virtuosistici (il tenore inerpicato laddove proclama katoličesku). Ancora emozioni nel terzetto del Santo e così pure nel curioso Agnus dai colori evanescenti come di arioso, sospeso e allusivo.
L’organo, nell’economia generale di questa singolare e atipica Messa secondo il testo della liturgia slava, gioca un ruolo di rilievo ed ha un suo passo solistico assai celebre (vale a dire l’ottava sezione). Un plauso speciale a Edward Batting per aver disimpegnato con scrupolo la parte organistica, per l’appunto. Peccato che l’uso di uno strumento elettronico con inevitabili casse acustiche non sia propriamente il meglio che ci si possa aspettare: nonostante i suoni campionati, resta strumento dal suono sgraziato e sgradevole, specie nei fortissimi e nel gioco di ance che Janáček richiede (uno strumento simile va bene al più per le scene teatrali di certe partiture ottocentesche, per dire dalla Vergine degli angeli in giù, non certo per affrontare un vero e proprio ruolo solistico).
Ma cosa vogliamo farci, nelle nostre contrade è così: un organo da sala sembra essere un sogno (di pochi visionari come il sottoscritto) lontano migliaia di anni luce dalla prosaica realtà, lontanissima dalle preoccupazioni e dalle concezioni dei progettisti (a Torino per dire né il Regio, né il Lingotto né l’Auditorium Rai che pure sfoggia una coreografica facciata di organo, ma solo la facciata dacché lo strumento è tuttora ‘smontato’, può vantare una grande sala con un organo comme il faut, il solo Conservatorio vanta un Tamburini di pregio, anni ’30, benché al momento fuori uso per ragioni di messa in sicurezza della stabilità delle canne di facciata). Fine del pistolotto pro organo da sala; resta da registrare il successo enorme della serata e le vivaci emozioni che la Glagolitica ha saputo suscitare: certo, per quei tesori di carattere armonico, timbrico e contrappuntistico che in essa Janáček ha profuso a piene mani. Ottima la prova fornita dall’orchestra all’altezza in tutte le sue sezioni.
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