di Attilio Piovano
Apertura di stagione, a Torino, la sera del 13 ottobre 2021 per i concerti di Lingotto Musica nel segno di un Beethoven davvero insolito e fascinoso: protagonista il grande Jordi Savall, gambista e direttore d’orchestra iberico di fama internazionale, alla guida della ‘sua’ creatura, Le Concert des Nations, sul versante di Sesta e Settima Sinfonia.
Un Beethoven restituito alla sua veste primigenia, quello pensato da Savall e dall’orchestra, formata per intero di professionisti dalla dissimile provenienza geografica e di diverse generazioni, accuratamente selezionati e specializzati nell’esecuzione con strumenti storici, nel lodevole intento di realizzare interpretazioni che possano approssimarsi il più possibile al dettato originale. All’origine del progetto discografico di una ‘integrale’ (Beethoven Revolutionary), nell’ambito delle recenti celebrazioni per il 250° del musicista di Bonn, c’è ovviamente un consapevole e profondo lavoro di ricerca storica, di scandaglio, oltre all’impiego – beninteso – di strumenti ad hoc, ovvero quelli in uso all’epoca dell’autore, all’adozione di fraseggi appropriati e di un diapason di 430 Hertz (lontano dal 415 dei barocchisti, ma anche dal moderno e ormai consolidato 440 o addirittura 442 delle maggiori orchestre sinfoniche mondiali).
Ne emerge un Beethoven rigenerato e inedito, ça va sans dire. Pur tuttavia nella proposta per così dire storicizzata e ‘filologica’ (per usare un termine abusato) da parte di Savall, ciò che emerge non è tanto (ovvero non solo) l’insieme dei pur rilevanti dati ‘tecnici’ citati poc’anzi, bensì una immediatezza e cordialità comunicativa che si percepisce fin dai primi istanti. Insomma, nulla a che vedere con certe interpretazioni filologiche (o presunte tali) esangui, prive di nerbo e colori, asettiche, come ‘sterilizzate’, al contrario un’interpretazione – quella di Savall e dei suoi ottimi strumentisti – pienamente godibile, ancorché inusuale.
«Per il nostro lavoro di preparazione – afferma Savall – siamo partiti innanzitutto dall’idea di recuperare il suono originale e l’organico orchestrale come Beethoven l’aveva immaginato». Così pure, fondamentale si rivela lo studio sulle fonti, il tutto – però – sempre finalizzato alla resa sonora che tenga anche conto (con un atteggiamento sanamente concreto e operativo) delle moderne caratteristiche acustiche di una sala da 1800 posti.
Delle due Sinfonie forse ha convinto maggiormente la Settima. Nella Sesta alcuni momenti di lieve ‘ristagno’, ad esempio nel protratto e pur sublime Andante si sono rilevati. Bene aver eliminato inutili orpelli e incrostazioni romantiche frutto di decenni e decenni di sovrapposizioni interpretative. E allora nulla di terrificante (o addirittura apocalittico) nel celeberrimo e famigerato ‘temporale’, bensì la prosecuzione di un frequentato topos al quale peraltro Beethoven conferisce un valore nuovo. Bene lo stacco dei tempi, il dosaggio delle dinamiche e la scrupolosa attenzione all’equilibrio fonico, con emersione di particolari timbrici, e non solo, che raramente è dato ascoltare.
Quanto alla Settima è parsa ricca di appeal fin dai primi istanti. Saggio aver staccato un tempo non troppo strascicato per il notissimo Allegretto, privato – giustamente – di quel pathos eccessivo e francamente fuori stile che troppo stesso aleggia in tante pur pregevoli esecuzioni.
Savall concerta con estrema cura, cesellando i dettagli, ma anche lasciando suonare l’orchestra, sapendo di poter contare su affiatati professionisti i quali – cosa non da poco – mostrano anche fisicamente di divertirsi un sacco e di suonare con reale gioia ed entusiasmo, lontani dalla dimensione routinier di pur blasonate compagini e così fin dall’insistito disegno ritmico dell’esordio tutto pareva fluire con naturalezza e spontaneità. Molto apprezzato lo Scherzo e così pure il Finale risultato esuberante e sciolto, pimpante e leggiadro, lontano peraltro dall’ebbrezza dionisiaca cui non pochi direttori indulgono (spesso per strappare l’applauso purchessia), insomma un Beethoven molto piacevole da ascoltarsi, gradevolmente insolito, come rivestito a nuovo, in una parola un Beethoven comme il faut.
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A pochi giorni di distanza, la sera di sabato 16 ottobre, inaugurazione della stagione del Regio Metropolitano, presso il Conservatorio torinese dall’impareggiabile acustica (stante l’attuale inagibilità della sala molliniana per rilevanti lavori di adeguamento agli standard di sicurezza, destinati a protrarsi ancora per mesi). Programma per intero mozartiano e organico opportunamente ricondotto ad una misura ‘settecentesca’ con Julian Rachlin in duplice veste di solista e direttore. In apertura il violinistico Concerto K 216, meno noto dell’onnipresente e amatissimo K 219 (dal finale intessuto di turcherie), ma non meno amabile. Gran mattatore, tecnica adamantina, un suono molto corposo e (in qualche caso) fin troppo esuberante, Rachlin ha saputo peraltro trovare sonorità adeguate nel tempo lento, tutto sospiri e sguardi a un passato di miltoniana memoria, facendolo reagire con la garbata brillantezza del Finale. Ben assecondato dall’Orchestra del Regio, in ottima forma, ha poi ringraziato il pubblico con un Bach solistico di perfezione pressoché assoluta e di grande intensità.
Poi ecco affacciarsi le atmosfere infuocate e mai apparse così vistosamente demoniache della Sinfonia in sol minore K 550. E qui, a ben guardare, Rachlin si è forse lasciato andare un po’ troppo spingendo a velocità perfino eccessive l’Orchestra, che lo ha peraltro magnificamente assecondato, sul piano tecnico e non solo, in questa sua visione interpretativa vistosamente densa di implicazioni ‘romantiche’. Con ancora nelle orecchie le sonorità prescelte da Savall per il suo Beethoven di poche sere innanzi, il gap era percepibile. Ciò non toglie che si sia trattato di interpretazione di sicura presa sul pubblico, a dispetto di certi eccessi dinamici ed agogici, una interpretazione di innegabile appeal: salutata infatti da una vera e propria ovazione da parte di un pubblico festante e numeroso che – finalmente – tornava ad occupare (quasi) per intero la sala. Ed è stato come trovarsi su un’auto sportiva dalle notevoli prestazioni (e le potenzialità dell’Orchestra del Regio, si sa, sono davvero vaste in tal senso) guidata da un pilota spregiudicato, coraggioso ed esuberante che – puntando a stupire – spingeva alquanto sul pedale, giocava di contro sterzo e ‘staccava’ con spettacolare effettismo e trascinante verve. Ci sta: del resto la sublime K 550 regge le interpretazioni più disparate, sicché c’è spazio per barocchisti che (assurdamente) tentano di riportarla indietro di mezzo secolo e chi come Rachlin (innegabilmente con un pizzico di capziosa captatio benevolentiae) quasi ‘novello Karajan’, ne ha inteso mostrare tutta la modernità, armonica, timbrica e dinamica, ‘spostandola’ più o meno legittimamente innanzi di almeno una ventina d’anni, in piena temperie romantica.