di Luca Chierici
La registrazione ad alta fedeltà di una recita dal vivo de L’enfant et les sortilèges di Ravel diretta da Victor de Sabata – non parliamo della “prima” di Monte-Carlo del 1925 ma almeno di qualche occasione più tarda come una delle quattro rappresentazioni scaligere del marzo del 1948 – costituirebbe un elemento prezioso, ma irrealizzabile, per capire quanto le affascinanti sonorità contenute nei due lavori raveliani messi in scena l’altra sera alla Scala possano effettivamente giungere all’orecchio dell’ascoltatore con una fedeltà di particolari verificabile attraverso l’ascolto casalingo di ottime registrazioni in commercio, soprattutto quelle di Ansermet, Dutoit, Maazel. La prima impressione che si coglie in teatro è infatti quella relativa a una sproporzione tra le raffinatissime caratteristiche strumentali delle partiture raveliane e l’effettiva ricezione di tutti gli infiniti dettagli all’interno di una sala di acustica non particolarmente felice come è quella del teatro milanese, tanto da chiederci in che misura la scarsa soddisfazione delle aspettative sia da imputare al lavoro di concertazione di Minkowski o ad altri motivi diciamo così strutturali. E non a caso lo stesso Maazel volle dirigere nel ’92 alla Scala una versione de L’enfant in forma di concerto, sottolineando come regie e scenografie che attingono a piene mani dalle suggestioni visive del teatro di Ravel possano distogliere l’attenzione dall’elemento puramente musicale.
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Marc Minkowski è un direttore che si spende moltissimo per la divulgazione di testi di non frequente ascolto, da Gretry a Boieldieu, con approfondimenti sostanziosi nel barocco francese e tedesco nati dal suo impegno con Les musiciens du Louvre, il complesso strumentale da lui fondato nel 1982. Ma affermare che Minkowski sia l’interprete ideale per queste difficilissime partiture raveliane non è così automatico, anche se egli ha saputo condurre in porto l’impresa con professionalità. Difficile è sottolineare sia l’insieme dei dettagli preziosi presenti nelle due opere brevi che il salto di qualità che è più che percepibile dato l’intervallo di quattordici anni che intercorre tra i due lavori. Si sarebbe desiderato forse un maggiore impegno nel dimostrare come soprattutto ne L’enfant et les sortilèges Ravel si segnali come il compositore più geniale nel proporre soluzioni strumentali d’avanguardia, al confronto delle quali, in quegli anni, non ci sono Puccini o Strauss che tengano. Del resto solo uno studio analitico delle due partiture può rivelare tutti i dettagli di una musicalità raffinata che, ridotto il dittico a una commediola piccante e a una favola per bambini, rischia di giustificare gli spazi vuoti in platea o il commento (semplicistico ma efficace) di due signore che sentenziavano mancare vere e proprie “arie” e che i pochi spunti riconoscibili echeggiavano il Boléro.
Il contesto narrativo di entrambi i lavori, specialmente il secondo, sembra fatto apposta per lasciare grande spazio a registi e scenografi attratti sia dal tema della scansione del tempo nel primo caso che dalle molteplici suggestioni oniriche che provengono dal libretto di Colette. Laurent Pelly non si è lasciato scappare l’occasione e ha dipinto un quadro vivacissimo nel primo lavoro, ovviamente costellato da segnatempo di tutti i tipi (senza dimenticare la rappresentazione della “stanza degli oggetti” meticolosamente apparecchiata da Ravel nella sua casa di Monfort-l’Amaury) ivi compreso l’oblò di una lavatrice che diventa anch’esso uno strumento di scansione dei minuti. La commedia che ha come protagonisti l’orologiaio, la moglie avvenente e i suoi amanti si può in parte interpretare come la parodia di una Zarzuela e le scene di Caroline Ginet e Florence Evrard potevano in parte trasformare la bottega di Torquemada in un basso mediterraneo dove si svolge una scena (piccante) di vita quotidiana. Ne L’enfant et les sortilèges il rigoglioso armamentario di travestimenti che permette di mostrare in scena animali di tutti i tipi e oggetti animati come la famosa teiera era corredato da mobili di grandezza inusitata e di apparizioni riuscitissime come quella della fiamma che fuoriesce dal camino nella stanza del bimbo lasciato in amara solitudine. Qui i costumi di Barbara de Limburg hanno fatto bella mostra di sé e hanno contribuito non poco a vivacizzare l’insieme di questa specie di debussiano Children’s Corner portato alle estreme conseguenze.
Nella prima opera in cartellone si è apprezzata la verve (e la voce) di Stéphanie d’Oustrac, brillante Concepcion che ha tenuto banco e si è davvero divisa tra i vari amanti. Costoro hanno convinto solo a metà: ai limiti del parlato il Don Iñigo di Vincent Le Texier, molto più convincenti gli altri, soprattutto il Gonzalve di Yann Beuron (in pantaloni arancioni a zampa d’elefante molto anni ’70) e il Ramiro di Jean-Luc Ballestra. Il ruolo principale ne L’enfant et les sortilèges è stato sostenuto con intelligenza e musicalità da Marianne Crebassa ma si sono fatte notare anche Armelle Khourdoïan nei ruoli del Fuoco, della Principessa e dell’Usignolo e Delphine Haidan, severa Maman e al contempo tazza cinese e libellula.
Che i complessi meccanismi rivolti al funzionamento dell’apparato scenico potessero incepparsi, come del resto capita anche agli orologi più prestigiosi, non era un accadimento del tutto improbabile. E’avvenuto quindi che nella scena dei pastorelli dell’Enfant qualcosa non abbia funzionato e che i commenti ad alta voce delle maestranze abbiano coperto a volte la parte musicale, come non accadeva da tempi fortunatamente immemorabili. Che sia stata questa la causa della mancata comparsa di Pelly e collaboratori a fianco degli interpreti per gli applausi finali non sappiamo. Sta di fatto che questi altri applausi avrebbero probabilmente prolungato quelli che effettivamente sono stati registrati per i cantanti, il coro e il direttore, in un consenso generale che ha premiato la proposta di questo repertorio non certo popolare.
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