Grande interpretazione di Mahler, dopo il concerto inaugurale, anche in occasione della seconda serata torinese del Festival MiTo (Auditorium del Lingotto, domenica 4 settembre). Le premesse c’erano tutte: una tra le migliori orchestre del mondo – la londinese e blasonata Philharmonia – e la bacchetta di lusso di un Lorin Maazel sorridente e in gran forma, con mezzo secolo di luminosa carriera alle spalle ai vertici dei massimi complessi mondiali.
di Attilio Piovano
UN MAAZEL CHE PER L’OCCASIONE ha scelto di dirigere la Sesta, forse una tra le più enigmatiche e per certi versi una tra le meno “emozionanti” delle Sinfonie mahleriane, in senso etimologico, ovviamente. Se pagine come la sublime Nona o, procedendo à rebours, il celeberrimo Adagietto della Quinta o ancora l’intera e gioiosa Quarta commuovono ed emozionano, e si potrebbe continuare elencando soprattutto le pagine ispirate al Wunderhorn, ecco che l’essenza ultima della Sesta (un tempo gratificata dell’epiteto di “Tragica”, poi espunto) talora invece pare sfuggire. Contiene sì temi incantevoli – segnatamente il cosiddetto tema di Alma, al quale Maazel guarda con affettuosa partecipazione, distillandolo con virile e pur partecipe abbandono – e altri passi si lasciano apprezzare con la mente e l’intelletto, ma non possiedono quell’immediata comunicativa e quello charme che seduce fin dal primo istante. Non per questo la Sesta va posta in second’ordine, ci mancherebbe: dacché è pagina lucidamente novecentesca, è proprio in ciò risiede la sua importanza storica, con quel suo pessimismo fatalistico e inesorabile (lo rivelano la granitica pulsazione specie del primo tempo, certo suo innegabile fatalismo suggellato emblematicamente dai famigerati rintocchi di incudine e martello), con quelle sue atmosfere talora irrimediabilmente grottesche, ma di un grottesco ormai lontano anni luce dal livido Funerale del cacciatore e dal remake di Fra’ Martino (alias Bruder Martin) della Prima.
Maazel, da consumato nocchiere e capitano di lungo corso, tutto questo ben lo sa. In conseguenza la sua, non a caso, è una lettura lucidamente analitica. E infatti più di ogni altra la Sesta si presta a tale lettura. Tutto nella interpretazione di Maazel era netto, stagliato, a partire dall’esordio, con quei ritmi di marcia incisivi e ineluttabili, quei fraseggi lapidari, niente brume agglutinate, una impressionante carica energetica risolta in puro ritmo, dalla quale il seducente tema di Alma emergeva ancor più stranito e proprio per questo rapinosamente fascinoso. Potendo contare su una compagine di altissimo livello – pare quasi pleonastico rimarcarlo – Maazel può dunque giocare sul senso del fatalistico e del grottesco cui si accennava – palpabili specie nello Scherzo dalle atmosfere allucinate e taglienti – profondendo, e non solo sotto il profilo ritmico, raffinatezze che gli intenditori hanno molto apprezzato. Poche le concessioni e i compiacimenti nell’Andante che taluno avrebbe voluto più macerato, ma invece no, era giusto così. E poi la catastrofe esistenziale dell’immane Finale, a coronare – nelle intenzioni dell’autore e nella lettura di Maazel – un vero e proprio percorso dell’anima, un itinerario interiore in cui c’è spazio anche per le reminiscenze di un’età felice e per atmosfere agresti simboleggiate dai campanacci da gregge. Quasi un paradiso perduto, un’età dell’oro irrimediabilmente tramontata, dinanzi alle tragedie della modernità. Un panorama insomma che una volta per tutte mandò in pensione il Romanticismo e tutte le sue fumisterie. Lucido sguardo proteso sull’abisso (ovvero dentro a se stessi, che è poi la stessa cosa).
Un arco meravigliosamente coerente, dunque, quello delineato da Maazel che ne ha fornito una visione lucidamente tesa e drammatica, come occorre, ancorché non apocalittica come taluno vorrebbe (esagerando): un Maazel a lungo applaudito, così come l’intera orchestra dalle strepitose prime parti. Ed era illuminante cogliere nel foyer brandelli di conversazioni di mahleriani di diversa fede che, idealmente, confrontavano questa esecuzione con un’altra, non meno memorabile, mesi fa, in Rai: con Bychkov. E scusate se è poco.
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