di Giampiero Cane
Mario Bortolotto, morto a Roma il 27 scorso, è stato un filosofo, un pensatore libero tout court, ma con una particolare vocazione alla musica. Lo definirei come partecipe, anche se un po’ fuori tempo, della civiltà e della cultura dell’alta borghesia, un suo campione, ormai in ritardo lungo la strada della decadenza che vede chi ha occhi per vedere quotidianamente; come protagonista del più elegante e disinteressato sapere musicale e filosofico, cui egli ha portato un certo contributo, ma di cui mai s’è servito per fini pratici limitati: siano da considerare tra questi gli emolumenti per la sua professione universitaria e/o di guida al lavoro culturale della Scarlatti di Napoli.
Anche se non è da credere sia stato conosciuto nel mondo banale della mediocrità, nemmeno minimamente, ciò se ne conferma le qualità di non-divulgatore e non fa che aggiungere meriti agli infiniti territori del suo conoscere e alla signorilità della sua astinenza dalla politica. Ovvio che questa parola non deve richiamare Aristotele e tutto quel che l’ha seguito rimuginandolo, ma il prodotto di quella marmaglia che ha fatto proprio il potere istituzionale, togliendolo da quanto può emanare da una ragion pura (non in senso kantiano, ma avulsa dal procedere per interessi pratici (denaro e vantaggi personali).
La sua seconda laurea, in filosofia su temi nietzschiani, testimonia il suo appartenere alla politica culturale, così come le divertentissime conversazioni che spaziavano nel ventaglio dei suoi interessi, tra i quali emergevano nel finire degli anni Sessanta, quando lo conobbi e frequentava con una certa assiduità un gesuita di cui ho perduto il nome, il pensiero di Sade, Spinoza, Bataille, Klossowski, e nei quali la musica non entrava quasi mai affatto, se non per Nietzsche, il cui lavoro approfondì fino a farne oggetto della sua tesi per la seconda laurea, in filosofia, presso l’università di Pavia.
Quando lo conobbi, nella seconda metà degli anni Sessanta, egli viveva a Roma, all’inizio di viale Trastevere, a due passi dalla casa di un compositore e delicato acquarellista siciliano, Francesco Pennisi, la cui musica non suscitava in lui particolari interessi. Se mai egli era attratto piuttosto da Dieter Schnebel, musicologo che si sarebbe rivelato piuttosto vicino a Kagel o a Cage. Degli italiani che emergevano allora aveva parola d’apprezzamento per Scelsi, Berio, Castaldi, Clementi. Frequentava Nuova Consonanza con interesse maggiore di quanto non avesse per i musicisti ormai in repertorio.
Da un paio di coccodrilli firmati sul Corriere e su il manifesto ho appreso che sarebbe stato il fondatore de Lo spettatore musicale. Non è vero. La testata era di Duilio Courir, giornalista del Carlino, e all’inizio doveva più a firme della critica musicale quotidiana, addetti allo spettacolo come Pironti, Bellingardi o de’ Rossi (taglie diverse, ma comunque nel genere ”gazzettieri”) che non alle eccellenze teoretiche quale di un Bortolotto. Dai rapporti con Bologna, fatti forti dal gran tessere di Diego Bertocchi (brillante giovane studioso, rapito troppo anzitempo a questa vita) nacque quello che sarà il ruolo di professore universitario di Bortolotto.
A capo del Dams c’era allora Marzullo, grecista di cui si leggono ancora traduzioni dal palcoscenico della grande Grecia preromana. Con lui non mi risulta che mancasse l’accordo che invece non fu più possibile quando, separati i campi di competenza, la musica ebbe a capo Luigi Rognoni, un divulgatore abbastanza ben piazzato nel mondo socialista d’allora.
Bortolotto puntò su Roma e fu subito ben accolto. L’ambiente musicale romano era caratterizzato dalla presenza di Landa e Paolo Ketoff. Lei era una bella signora, proprio bella, che mi dissero fosse stata un’annunciatrice della Rai, ma non lo so; lui era un ingegnere elettronico assai stimato nell’ambiente per il suo lavoro. Poveretto: anni dopo fu sbalzato fuori dal gommoncino che aveva nel lago di Bracciano e l’elica gli straziò alcune dita di una mano. Si riprese e continuò a insegnare, ma quanto al fare era ormai in difficoltà.
La loro casa nel Corso era un salotto letterario di alta qualità. C’era in una sala un pianoforte a coda, non ricordo di che marca, ma uno strumento ottimo per lo studio e il concertismo domiciliare. A un certo punto promossero delle lezioni di storia della musica, ma non li frequentai. Né, che io sappia Bortolotto vi partecipò o vi tenne lezioni.
Ora piace ai parvenu ricordare che a lui Beethoven era un po’ indigesto. È vero, ma solo per quel per cui era già diventato scontato, cioè quasi simbolo dell’immusonito risentimento. Ma quando il LaSalle fu a Roma, in via Nazionale, con in programma gli ultimi quartetti, anche Bortolotto era lì, incantato quant’io lo ero, ma quella sera per me era “sperimentale” ché m’ero preso un po’ di lsd e mi pareva di avere quattro orecchie, ciascuna dedita a uno degli strumenti e con me c’era una di quelle fantastiche ragazze che tutti nell’ambiente m’invidiavano, meno i non pochi alieni dall’eterosessualità. E Mario che aveva nelle vene qualche goccia di quel pensiero anarchico che fa sì che uno le regole se le dia con il proprio giudizio autonomo e non le subisca dal costume o da non autorevoli autorità, trovava creatività e divertimento nel mio sguardo che inseguiva non so più cosa.
Quello che gli era decisamente indigesto, cioè una musica che, tra altre, gli era decisamente indigesta era quella di Satie: il suo giudizio era un sentimento di “ribbrezzo” (lo sottolineava raddoppiando romanzescamente la b). Non ho mai capito perché, ma non me ne sono preoccupato. Quello della musica meno impegnativa, da intrattenimento, era per lui un tema che poteva essere trattato soltanto seguendo il principio del proprio piacere. Frank Zappa lo divertiva q.b., ma non nelle cose registrate da Boulez (così mi pare di ricordare). Thelonious Monk non gli dispiaceva affatto. A cena, a casa mia, in via dei Fienaroli, non lontano dalla sua abitazione, un paio di suoi pezzi li ascoltava stando quanto basta silenzioso. Era un po’ da bohème la mia piccola casa romana, però non era caratterizzata dalla maschilità di quella dell’opera di Puccini. Avevo una giovane moglie che in cucina se la sbrigava bene. Mario Schiano era a volte nostro ospite, così come anche Steve Lacy, questo o quello dell’Art Ensemble of Chicago, ma non tutti e quattro (Don Moye passò un’oretta a frugare tra i miei libri) Marcello Panni, John Cage, il direttore Paolo Frajese.
Pensando a quest’ultimo m’immalinconisce un po’ ricordare come, avendomi invitato Carlo Badini nel suo ufficio quand’ancora era a Bologna per chiedermi un parere sulle sue qualità di direttore d’orchestra, io mi fossi alquanto trattenuto, senza capire che ciò avrebbe implicato una valutazione ambigua. Meritava ben altro, anche se non era sufficientemente spudorato per giganteggiare sul podio. Negli anni ne ho visti di senza ritegno.
Tornando a Bortolotto, ho letto che non amava Rossini. Del mio “Sade Rossini Leopardi: Tre deformazioni dolorose” non abbiamo mai parlato, ma nemmeno mai di uno dei suoi libri. Forse era reciproco rispetto, fiducia data a priori, attribuzione reciproca di indiscutibile qualità. Non so, ma Mario era spesso a Pesaro per il ROF e di Rossini amava (o sopportava) le opere più leggere. Sulla piena coscienza del musicista quanto al pompierismo del Tell eravamo d’accordo, senza parlarne.
La mia sensazione à che a Mario Bortolotto fossero indigesti gli stupidi. Quanto al resto si poteva trattare. Ero e sono sufficientemente d’accordo.